14 ottobre 2022
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Biografia di Philippe Leroy
Philippe Leroy, nato a Parigi il 15 ottobre 1930 (92 anni). Attore. «Ho passato la vita a fare cose sbagliate».
Vita «Ha quel sorrisetto ironico che dopo oltra duecento film non ha ancora cancellato. Da L’occhio selvaggio, di Paolo Cavara, dove interpreta un reporter in giro per il mondo, a I cavalieri della vendetta, di Carlos Saura. Da Le voci bianche a Sette uomini d’oro a La Mandragola di Alberto Lattuada. Anche se in Italia lo ricordano nei panni di un personaggio che ha tenuto incollati davanti alla tv milioni di telespettatori: Yanez De Gomera nello sceneggiato televisivo Sandokan, di Sergio Sollima. Una carriera divisa tra Francia e Italia» (Annamaria Piacentini) • «Mozzo, lavapiatti, benzinaio, allevatore di bestiame, manovale all’aeroporto di Tahiti, volontario in Indocina e tenente in Algeria con le mostrine dell’Esercito francese, disboscatore di giungla in Costa Rica, mangiafuoco nelle carovane circensi, allevatore di tartarughe, fumatore occasionale di oppio ad Hanoi, viaggiatore di confine tra Malesia, Singapore, Colombia e Venezuela, autostoppista in America: “La percorsi tutta nel 1947 chiedendo passaggi per strada alla Kerouac, ventimila chilometri in pochi mesi”, paracadutista nei cieli dell’Afghanistan e presenza scenica in più di duecentoventi film. […] “Studiavo poco e male e presto si capì che non avrei onorato il buon nome del casato. I parenti mi consideravano un buono a nulla. Una persona come me, nella mia famiglia non c’era mai stata. Quando all’epoca di De Gaulle, per aver osato mettersi contro il Generale, mio padre, mio nonno e mio fratello, tra un esilio e un arresto, ebbero serissimi problemi, io venni nascosto in collegio dai Gesuiti a Montpellier. La vita monacale però non faceva per me. Quelli erano pazzi. Tu volevi uscire la domenica e loro pretendevano di confessarti. Esasperato dall’ennesimo sermone tagliai la corda”. E si imbarcò come mozzo a 17 anni. “Quando il treno passa, bisogna prenderlo senza sapere dove si scende. L’ho sempre fatto, salendo a bordo delle avventure più improbabili e non me ne sono mai pentito. Ho sbagliato tanto, fatto molti errori e, per campare, ho interpretato anche un’infinità di film bruttissimi. Ma non sbaglia solo chi si nasconde e io di fare lo struzzo non avevo nessuna voglia. Mi pareva che la vita fosse un inno al rischio e alla scoperta. Senza azzardare, tanto valeva morire”. E lei ha azzardato. “In un’epoca in cui ogni cosa, a iniziare dal viaggio, era più facile di oggi. A volte è andata bene, altre male, altre ancora malissimo. La ruota gira. Io comunque sono troppo credulone. Troppo buono. E alla fine mi faccio sempre fregare”. Proprio sempre? “Sempre, sempre, sempre. È la mia natura. Non ci posso fare niente”. È strano sentirglielo dire. Prima di diventare attore lei ha fatto la guerra in Indocina e in Algeria. In luoghi difficili. “Ho combattuto per quello in cui credevo. Pensavo fosse giusto e non essendo un vigliacco, non mi sono tirato indietro”. E in cosa credeva? “Non nel colonialismo né nello sciovinismo, ma nella Francia. Nei suoi diritti, anche territoriali. Nei giorni dell’indipendenza dell’Algeria mi sentii tradito da De Gaulle e mi misi dall’altra parte della barricata. Per questa ragione, mentendo, mi hanno dato del fascista e invece io sono soltanto francese fino alla punta dei capelli. Delle 13 legioni d’onore della mia famiglia, due le ho guadagnate io. Sul campo. Il 14 luglio espongo ancora la bandiera”. L’altra bandiera della sua vita è stata quella italiana. Per le mie posizioni dissenzienti venni schedato e dovetti scegliere tra emigrare in Italia o fuggire in Belgio. Tra le due destinazioni, non dubitai un solo secondo”» (a Malcom Pagani e Fabrizio Corallo) • «“Dopo la guerra ho trovato un lavoro. A Parigi vendevo prodotti chimici per gli americani. Sono sempre stato un tipo molto equilibrato e serio in ogni cosa che facevo. Poi gli americani mi hanno detto: arrivederci e grazie!”. Per quale motivo? “Mi hanno chiamato per girare il mio primo film che invece di durare quattro settimane, è terminato dopo nove. Ero indeciso se accettare o meno. Fare l’attore per me era una cosa assurda. Inoltre mi avevano detto che gli attori erano tutti omosessuali. […] Accettai di girare Le trou (Il buco) di Jacques Becher, con Jean Keraudy e Michael Constantin. Un film molto interessante, che non ho mai dimenticato. In seguito, sono andato in Italia”. Si dice che sia fuggito in Italia per ragioni politiche, vero o falso? “Sì, ma è acqua passata, meglio non parlarne. Sono arrivato a Roma, era una bella giornata. Mi sono recato a Piazza di Spagna: ero solo, senza soldi e non parlavo l’italiano”. Come ha fatto a cavarsela? “Sono stato fortunato. Considero la mia buona stella quella che mi sono tatuato al ritorno dall’Algeria. Stavo per entrare in un alberghetto, ex casa di appuntamenti, quando mi sono sentito chiamare: Leroy, cosa fai in Italia?”. Chi era? “Vittorio Caprioli. Parlammo un po’ e lui mi disse: vieni con me, sei un bravo attore e ti voglio nel mio primo film. Era Leoni al sole. Ho accettato per sopravvivere, ma di quel film, non mi sono mai pentito”» (Annamaria Piacentini) • «Dopo Il Buco e Leoni al sole vennero molti altri film. Ho qualche lampo: Sette uomini d’oro e Le ore nude di Vicario, Senilità di Bolognini, Senza sapere niente di lei di Comencini con Paola Pitagora, ma vi dico la verità: ne ho fatti troppi, come vi ho detto alcuni sono orrendi, in molti altri lavori a non essere ancora pronto ero proprio io e i titoli di tutte le zingarate a cui ho partecipato non me li ricordo più”. Il primo vero incontro importante? “Quello con il mio maestro, Renato Castellani. Mi offrì di fare Da Vinci ne La vita di Leonardo per la Rai e mi fece capire che, fino ad allora, in scena avevo messo solo l’istinto: ‘C’è un enorme lavoro da fare, sei pronto?’”. Lei era pronto? “Neanche un po’. Interpretare Leonardo mi pareva impossibile. Era come chiedere a un italiano di fare Napoleone. Avevo tanti dubbi, a iniziare dalla sconsolante povertà della mia cultura rinascimentale. Castellani mi sostenne. Mi pungolò. Mi spronò a guardarmi dentro. Fu profetico: ‘Vedrai, ti porterai dietro per tutta la vita i tic di Leonardo’”. Aveva ragione? “Di più. Per un anno e mezzo non pensai ad altro e alla fine alcune cose, tra cui il piacere della solitudine, mi rimasero attaccate addosso. Il lavoro fu estenuante. All’epoca non c’erano i sindacati. Mi alzavo alle 5 del mattino e tornavo a casa, trasfigurato, alle 22. De La vita di Leonardo vennero prodotte cinque puntate e il film, solo per dare la cifra complessiva del successo dell’operazione, fu venduto in 83 paesi”. Proprio come il Sandokan di Sergio Sollima, il padre di Stefano. Quando andò in onda la prima puntata, il 6 gennaio 1976, al piccolo schermo rimasero attaccate trenta milioni di persone. “Yanez sono io. È un personaggio che mi perseguita. Interpretandolo, mi sembrò di rivivere la mia vita. I sei mesi passati tra la Malesia e gli studi di Bollywood, comunque, sono stati i più straordinari di tutta la mia carriera. Nell’affidarmi il ruolo, Sollima mi fece un regalo impagabile. Era geniale, allegro e fantasioso. Ogni tanto, grazie a dio, talento e simpatia coincidono. Quanto ci siamo divertiti. Ovunque andassimo, in scenari da sogno, trovavamo casino, festa e tavole imbandite. Eravamo la banda Yanez. La serie era molto curata, spettacolare e aveva un soggetto che anche senza possedere la magia creativa che avevo sperimentato plasmando Leonardo e pur dovendo restare nel solco di Salgari, aveva infinite possibilità di riscrittura in corso d’opera”. Essere Yanez de Gomera, il saggio e nobile amico del Sandokan interpretato da Kabir Bedi, cambiò il suo percorso? “Non più di quanto già da tempo non avesse fatto il vivere in Italia. Un paese che mi ha insegnato molto, a partire dall’importanza di comunicare con la gente. I parigini possono essere scostanti, alteri e spocchiosi. Gli italiani sono curiosi e anche a rischio di essere invadenti, se ti incontrano al bar, invece di guardarti dall’alto in basso una domanda te la fanno sempre. In Francia mi consideravano un brigante. Qui mi hanno accolto subito come un amico”. […] “Con alcuni registi ho avuto ottimi rapporti. Con altri, pessimi o difficili”. Parliamo di questi? “Mi ricordo che con Godard feci un’enorme fatica. Stessa storia a teatro con Strehler. Forse è colpa mia, forse sono un grande egoista, forse sono scorbutico, forse soltanto timido. Non lo so”. Come andò con Strehler? “C’era la corte adorante, il codazzo genuflesso e due passi indietro, c’ero io. Mi sembrava di essere discreto, ma lui voleva essere costantemente adulato e protestava: ‘Non partecipi, non mi sei vicino, mi snobbi, non te ne frega niente’. Con me Giorgio fu brutale. Silvia (la moglie, Silvia Tortora, ndr) fece da paciere. Dopo esserci conosciuti meglio, comunque, le cose con Strehler migliorarono. D’altra parte è inevitabile, come mi diceva il direttore del Teatro Quirino, io recito con la trippa. Sono viscerale. Sul palco do tutto, ma fuori sono distratto e detesto gli attori pretenziosi che si danno un tono e discutono solo del proprio mestiere. La mia vita va oltre il set. Una volta ho incontrato Salvatores e l’ho confuso con Tornatore chiamandolo Tornatores. Ve l’ho detto, penso ad altro. Cerco aria per le mie passioni. Magari sono momentanee, ma lì per lì bruciano” […] Altri rapporti difficili tra vita, set e inclinazioni? “Amici attori ne ho pochissimi, registi ancora meno. Faccio prima a dirvi con chi sono andato d’accordo. Con Totò, durante La Mandragola di Lattuada, perché il principe era un vero signore. Con Lea Massari, una grandissima attrice con la quale non c’era neanche bisogno di parlare. Bastava lo sguardo. E con Dirk Bogarde, durante Il portiere di notte. Accadde una cosa rarissima e stupenda. Eravamo così dentro ai nostri personaggi che continuammo a recitare anche dopo lo stop dato da Liliana Cavani. Non succede mai, fidatevi”. Lei ha recitato anche con Manfredi, con Gassman, con Ugo Pagliai, con Catherine Spaak, con Mastroianni, con Virna Lisi. “Se escludo Virna, donna divina e non solo per la bellezza e Marcello, uomo di rara simpatia e talento eccelso, con gli altri quattro ci siamo cordialmente ignorati. Per non dire peggio”. Esploriamo il peggio? “Gassman fu spietato. ‘Sei solo un piccolo attore di provincia’, diceva. Chissà, magari aveva ragione”» (a Pagani e Corallo) • Da ultimo visto al cinema nel 2018 in Hotel Gagarin di Simone Spada. In televisione nello stesso anno nel programma di Alberto Angela Meraviglie. La penisola dei tesori • Nel 2012 ha pubblicato l’autobiografia Profumi (editore Campanotto): «È quasi un testamento. Dentro ci sono gli odori che ho annusato, le atmosfere che ho amato, i fratelli acquisiti che ho incontrato per la via» • Al cinema non ha mai voluto controfigure. La scena più pericolosa fu quella della serie Rai Tir (1984) in cui si dovette calare da un elicottero con una fune: «C’era un vento fortissimo, io dovevo sganciarmi e atterrare su un camion penzolante nel vuoto, appeso a una teleferica» (a Marina Cappa) • Dalla fine degli anni ’80 vive nel borgo di Isola Farnese, nelle campagne alle porte di Roma.
Amori Nel 1990 ha sposato la giornalista Gaia Tortora, figlia di Enzo Tortora (1928-1988), dalla quale ha avuto due figli, Philippe (1992) e Michelle (1997), e che lo ha lasciato vedovo il 10 gennaio 2022 • Ha anche un’altra figlia, l’attrice Philippine Leroy-Beaulieu (1963), avuta da un precedente legame con la modella Francoise Laurent.
Passioni Amava lanciarsi col paracadute: «L’ho scoperto tardi, a 56 anni, e non ho mai smesso. Giro sempre col paracadute nel bagagliaio dell’auto» (a Marina Cappa nel 2009). La volta che ha rischiato grosso: «In Costarica mi si sono aperte le ali troppo in alto, ero sull’Oceano e non potevo dirigere il volo. Per fortuna il vento mi ha portato sulla foresta equatoriale e sono riuscito ad atterrare non sugli alberi, ma in un fiumiciattolo lì in mezzo. Ero contento, ero stato fortunato. Così mi sono avviato per raggiungere gli altri, ma sento un rumore alle spalle: c’era un toro inferocito che mi caricava, forse perché sul paracadute avevo una striscia rossa».
Soldi «La mia pensione è di 980 euro al mese. Tutti della Rai. Il cinema mi ha fregato, non versavano i contributi» (a Marina Cappa) • «Non sono ricco e non me ne frega niente perché quando muoiono, i ricchi diventano come tutti gli altri. Sepolti. Sottoterra. Senza ricchezze» (a Pagani e Corallo).