17 ottobre 2022
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Biografia di Pier Luigi Cervellati
Pier Luigi Cervellati, nato a Bologna il 18 ottobre 1936 (86 anni). Architetto. Urbanista. Accademico. «Consciamente o meno, molti architetti moderni lavorano per delle opere che devono durare poco. Mirano al capolavoro. Il mio modello è un altro. Quello dei maestri comacini, i sapienti costruttori che operarono fra il VII e il XIII secolo in tutta Italia. Le più sfrenate ricerche d’archivio non sono approdate a dar loro un nome. Ecco, per edificare grattacieli bisogna avere o tentare di possedere un nome. Per curare una città bisogna coltivare il senso dell’anonimato» (a Francesco Erbani) • Nato e cresciuto a Bologna. «Ah, le prostitute e i ladri di una volta! Vogliamo mettere? […] Beh, più che nella fantasia entrano nei ricordi di un bambino che abitava in via Fondazza, strada frequentata da gente che viveva pericolosamente. […] Non c’era luce né i gabinetti: c’era, come le dicevo, la prostituzione. Confesso che un po’ mi vergognavo di abitare in via Fondazza, preferivo dire che la mia casa era di fronte allo studio di Giorgio Morandi» (ad Antonio Gnoli). Figlio di un «“operaio delle ferrovie, saldamente ancorato alle traversine dell’esistenza. Non l’ho mai visto dubitare dei binari su cui aveva messo la sua vita. Aveva fatto la Prima guerra per finire prigioniero degli austriaci: fuggì poco prima dell’armistizio. A quanto pare fu una fuga rocambolesca, ma non ne volle mai parlare. Nel 1938 si iscrisse al Partito comunista d’Italia e per tutta la vita ha letto l’Unità e, finché c’era, Il Calendario del Popolo. Ricordo che negli anni Cinquanta compravo Il Mondo e lui si incazzava: non voleva che in casa circolasse la stampa borghese”. Tosto e ortodosso. “Tostissimo. La prima Coca-Cola, l’ho bevuta a cinquant’anni. Anche lì niet. Sapevo che alcune cose in casa non potevano entrare”. Ed è sempre stato così conflittuale il rapporto? “Non fu mai una relazione temperata. Però è curioso: somigliando fisicamente a mia madre, una mattina, allo specchio vidi due rughe a parentesi che chiudevano il volto. Con stupore mi accorsi di avere la stessa faccia di mio padre. […] Avevo passato metà della mia vita a detestarlo silenziosamente. Ma quella somiglianza disinnescava la bomba d’odio. Cominciai non dico ad amarlo, ma a comprenderlo. Perfino quella sua fedeltà assoluta al Partito comunista, che mai vacillò, mi sembrò innocente”» (Gnoli). Studiò Architettura all’Università di Firenze. «“Ero abbastanza digiuno di cultura. Avevo scelto Architettura dopo aver letto Storia dell’architettura moderna, di Bruno Zevi. Il libro era uscito nel 1950 e per me fu una rivelazione. O, meglio, all’inizio fu un testo importante”. Si è poi ricreduto? “A suo modo resta un classico, anche se col tempo presi le distanze da quella impostazione. In fondo Zevi fu il fautore di una modernità che non risparmiava la città storica. Ricordo la sua frase ricorrente: ‘Quello che oggi è moderno domani sarà storico’! Tanta baldanza mi dava fastidio. I suoi papillon, le pipe ostentate, le giacche di tweed divennero la divisa di ordinanza tra gli architetti. Una volta, durante un confronto pubblico, gli diedi del trombone”. E lui? “Si offese mortalmente. Capitava che ci si incrociasse ai convegni: ‘Se c’è quello stronzo di Cervellati, io non parlo!’, esclamava veemente”. Cosa non andava nella concezione moderna di Zevi? “Un fatto semplicissimo: per me la città storica va considerata come un unico monumento e come tale difeso. Arrivai a questa conclusione soprattutto grazie all’insegnamento di Benevolo [Leonardo Benevolo (1923-2017), architetto e urbanista – ndr]. Il nostro rapporto ebbe inizio nei primissimi anni Sessanta ed è andato avanti fin quasi alla sua morte”. Cosa ha appreso da lui? “Fondamentalmente l’idea che l’architettura è una costruzione sociale. Credo che l’avesse ereditata dal pensiero di Walter Gropius. E già con questa premessa si poteva misurare tutta la distanza da coloro che, come Zevi, interpretavano il mestiere dell’architetto alla stregua dell’artista o del creativo. Il passo perché questa figura diventasse l’odierna archistar fu brevissimo”. Con quali conseguenze? “La parte individuale ha soffocato interamente la dimensione collettiva. Non ho motivo di credere che certi progetti siano frutto della malafede o dell’ignoranza, o del mero egocentrismo, ma ho il sospetto che si sia tenuto in poco conto il valore storico e l’evoluzione di una città. E la conseguenza più vistosa è il passaggio dalla città storica a un aggregato urbano senza alcun senso, che si disperde nella campagna. […] In Italia il bene culturale va tutelato perché parla della nostra identità”» (Gnoli). «Pier Luigi Cervellati […] appartiene alla generazione di urbanisti che, ancora esordienti, assistevano sgomenti alla tumultuosa, sgangherata espansione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta. E che dunque, sul campo e leggendo su Il Mondo gli articoli di Antonio Cederna, maturarono convinzioni rigorose su come una città avrebbe dovuto invece crescere. Quando poterono, le convinzioni, le applicarono, cogliendo congiunture politiche di tipo riformista tanto favorevoli quanto poco durature. Ma in fondo restarono ai margini di quel che accadeva in Italia. Fra le convinzioni c’era, e c’è, quella che il centro storico di una città, vanto della tradizione italiana, non è solo un aggregato di chiese, di palazzi monumentali o di scenografiche piazze, ma un tessuto fatto di pregi architettonici e di edilizia minuta, di strade che convergono verso un punto di fuga, di allineamenti; e poi – e soprattutto – di persone, con le loro attività e le loro relazioni. E che come tale va salvaguardato. Che cosa resta, se resta, di queste caratteristiche? “Poco. Ma mi faccia dire che parlare di centro storico è fuorviante. Ed è tuttora frutto di pericolosi equivoci”. Fuorviante? Perché? “Non l’ho capito subito. E devo a Leonardo Benevolo il merito d’avermelo fatto capire quando lavoravamo al piano di Palermo. Non c’è un centro: c’è una città storica, perché quel complesso di abitazioni, chiese, conventi, piazze e strade, e poi di persone e di attività, era una città a tutti gli effetti, fisici, sociali e comunitari. Non il centro di qualcos’altro”» (Erbani). «È stato assessore comunale e regionale all’Urbanistica in un periodo chiave per lo sviluppo di Bologna, fra il 1964 e il 1980, dall’ultima giunta di Giuseppe Dozza, il popolarissimo sindaco eletto dopo la Liberazione, a quella di Renato Zangheri, fino all’approdo in Regione, presidente Lanfranco Turci. Era considerato il nume dell’architettura di area comunista, insieme con un altro architetto, stessa tessera in tasca, Giuseppe Campos Venuti, che dice: “Ricordo Cervellati quando, appena laureato, arrivò in Comune. Io, che ero assessore, lo feci assumere come tecnico. Mi parve subito un ragazzo intelligente, brillante, e quando il Pci cercava quadri emergenti io proposi lui, e gli chiesi se fosse disponibile. Gli dissi anche che non doveva iscriversi al Pci, se non voleva, ma lui prese la tessera lo stesso”» (Giorgio Ponziano). «Da assessore tentò uno dei primi esperimenti italiani di chiusura alle auto di una piazza o di una via. Bologna, 1967. “Piazza Maggiore era un garage, e, nonostante circolassero molte meno macchine di oggi, il cuore della città era un ammasso frenetico di lamiere”. E lei che cosa fece? “Proposi di eliminare le auto. Contemporaneamente ci si provò anche a Siena, in piazza del Duomo”. E riusciste nell’intento? “Non fu semplice. Ebbi contro non solo i commercianti. Qualcuno mi derideva: avevo competenze sul traffico, ma non possedevo né patente né macchina. A casa mia arrivarono due modellini di bara. Era agosto. Quando poi i bolognesi tornarono dalle vacanze, molti di loro ebbero l’impressione che un luogo della città fosse restituito a un uso pubblico. Ma poi quell’esperimento rimase isolato”» (Erbani). Questo il «metodo […] praticato da Pier Luigi Cervellati a Bologna. Acquisizione pubblica degli edifici. Restauro, nel rispetto delle regole costruttive originali. E, soprattutto, riassegnazione degli appartamenti in affitto ai residenti, stroncando sul nascere ogni appetito speculativo» (Erbani). «Utilizzammo le norme dell’edilizia popolare, ma invece di costruire in periferia con soldi pubblici cercammo di risanare le abitazioni perché ci potesse restare a vivere chi altrimenti sarebbe stato espulso da pure logiche di mercato». «“Facemmo un ottimo lavoro. Il recupero del centro storico di Bologna riscosse molti plausi all’estero. Da noi invece piovvero tante critiche. Bruno Zevi e Paolo Portoghesi mi imputarono di aver praticato, con i restauri, dei ‘falsi storici’. Altri sostennero che i costi erano eccessivi. Ma il più resistente motivo di ostilità fu che, risanandone la parte antica, si rompeva con la tradizionale crescita della città: non ci sarebbe stata più ragione di espandersi, piazzando altro cemento in periferia”. E come andò a finire? “Il piano fu realizzato. Ma nel 1980 fui promosso consigliere regionale”. […] Lei ha lavorato anche con Ajmone Finestra, sindaco ex missino di Latina. “Il piano è ultimato. Prevede la salvaguardia di tutta la new town, la città costruita dopo la bonifica degli anni Trenta. È un esempio di corretta politica urbanistica, anche se realizzato dal fascismo. Le brutalizzazioni sono avvenute negli anni Cinquanta e Sessanta”» (Erbani). «Su un verso della medaglia c’è il Cervellati-politico, sull’altro il Cervellati-architetto: studio assai ben avviato, docente all’Università di Bologna e […] alla Iuav di Venezia, ricca bibliografia. Ha messo la sua firma anche su una […] ristrutturazione dell’edificio della redazione bolognese dell’Unità, mentre Leoluca Orlando gli affidò l’incarico di redigere il nuovo piano regolatore di Palermo» (Ponziano). Tra i vari interventi curati da Cervellati negli ultimi decenni, la ricostruzione dell’oratorio di San Filippo Neri a Bologna, la riqualificazione di piazza della Repubblica a Cattolica e, più recentemente, il restauro del Teatro Amintore Galli di Rimini • «Non sono un uomo dalle spiccate tendenze religiose» • «Lei è stato comunista? “Non avrei potuto, con quell’esempio in casa. D’altronde, a Bologna il comunismo, più che un’ideologia, fu uno stile di vita. E per questo da indipendente l’ho appoggiato. Soprattutto quando ho fatto l’assessore”» (Gnoli). Grande clamore quando, nel 2011, nell’imminenza delle elezioni comunali di Bologna, dichiarò il proprio voto a favore del candidato sindaco leghista Manes Bernardini, pur negando di essere diventato leghista. «Io sono assolutamente deluso da ciò che ha combinato da questa parti, negli ultimi anni, il centrosinistra, prima con Cofferati e poi con Delbono… […] È solo, tragicamente, un problema pratico. […] Qui deve tornare a essere centrale l’attenzione al territorio e a chi vi abita. E la sinistra, purtroppo, ha dimenticato come si fa» (a Fabrizio Roncone) • «Cosa pensa dell’architettura fascista? “Non ho alcun pregiudizio verso quell’esperienza che ha avuto in Giuseppe Terragni l’espressione più geniale. Egli fu uno dei figli del razionalismo europeo, e in particolare dell’elaborazione di Le Corbusier”. Fu anche uno dei “figli” del regime. “Non c’è dubbio che il fascismo seppe fregiarsi di una certa modernità, quando questa gli servì. Ma, città come Latina o Sabaudia, le demolisci solo perché sei antifascista? Tra le molte cose che ho appreso da Benevolo c’è anche quella di andare oltre il furore ideologico, che non è mai un buon criterio estetico”. Lei separa nettamente la politica dall’estetica? “Mi capita di affermare che Ezra Pound è il più grande poeta del Novecento, […] e continuo a leggere con infinito piacere La terra desolata di Eliot, che lui rivide a fondo”. Quindi cultura e fascismo non necessariamente si escludono? “Non la metterei su questo piano. Marcello Piacentini passò per una specie di genio dell’architettura e dell’urbanistica. Mentre l’ho sempre considerato retorico, trionfalistico, inutilmente monumentale. O, per fare un esempio in campo filosofico, Giovanni Gentile fu indiscutibilmente fascista, e lo fu fino in fondo. Ma la condanna politica implica automaticamente la condanna del suo pensiero?”» (Gnoli) • «Viaggia solo in ferrovia» (Jenner Meletti) • «Il padre dell’ideologia della conservazione, che ha avuto larga influenza in Emilia-Romagna e sulle riviste d’architettura negli anni Ottanta e Novanta» (Maurizio Cecchetti). «Gli studi e le pianificazioni di urbanisti come Leonardo Benevolo e Pier Luigi Cervellati hanno mostrato la concatenazione fra rendita e speculazione edilizia, da un lato, e il ciclo di crescita e degrado delle periferie, dall’altro: talvolta tentando, come nel caso di Cervellati a Bologna, di procedere al recupero del centro storico come luogo abitato, e non solo ambiente professionale e commerciale; e nello stesso tempo di pianificare una città fatta di “centri”, cioè sottratta all’anomia sociale e culturale degli enormi caseggiati che costellano la cintura esterna delle grandi città» (Edmondo Berselli) • «La migliore definizione di città, Pier Luigi Cervellati l’ha trovata in una vecchia, sbrindellata edizione del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo che l’urbanista custodisce. […] La citazione non è testuale, Cervellati va a memoria: “Luogo spesso cinto da mura la cui costruzione non è affidata all’anarchia del caso e in cui vivono persone che si sottopongono alle medesime leggi”. E poi aggiunge: “Sa quale era uno dei requisiti che un abitato del Veneto doveva possedere perché l’impero asburgico potesse fregiarlo del titolo di città? Che ci fosse un teatro”. […] “Senza residenti non c’è città. Né storica né d’altro tipo”. Lei ha sempre pensato che l’architettura moderna dovesse restare fuori dai centri o dalle città storiche. È ancora di questo parere? “Sì. E in questo mi distinguo anche dal mio maestro Benevolo. Ciò non toglie che ci sia tanto da fare nelle città storiche”. Che cosa? “Il restauro urbano. Il restauro non del singolo edificio, ma di un complesso di edifici, risalendo al concetto per cui la città storica non è solo contenitore di monumenti, ma luogo di vita, di attività”. E se questa vita e queste attività non ci sono più? “Dobbiamo riportarcele”» (Erbani). «Tutte le città storiche dovrebbero essere pedonali. Una battaglia non solo contro lo smog, ma anche per ridare un significato di appartenenza alla città» (ad Alessandra Mangiarotti) • «Non capisco perché molti architetti continuino a rivendicare il diritto di misurarsi con l’antico. È come se l’architettura moderna non si potesse realizzare se non nei centri storici. Dobbiamo intervenire invece nelle aree periferiche o in quelle, come si dice, interstiziali, cioè comprese fra un aggregato e l’altro. Niente nuove costruzioni, ovviamente: a tutti i costi dobbiamo evitare che la campagna sia ancor di più urbanizzata». «L’età industriale ha prodotto edifici enormi, lunghi centinaia, migliaia di metri, spesso di qualità ingegneristica non indifferente. Bisognerebbe mantenerli, almeno in parte, almeno nei loro aspetti più caratteristici. Possono essere riutilizzati come biblioteche, musei, centri di studio. Eppure in prevalenza questi luoghi sono cancellati, sostituiti da nuovi insediamenti abitativi. […] In Italia non c’è bisogno di edilizia residenziale» (a Leonardo Servadio). «Il territorio si difende costruendo nuove comunità e non nuove case. Gli edifici dimenticati possono essere una grande occasione» • «“L’Italia è una villettopoli”. Ma lei perché ce l’ha con le villette? “Il loro insieme costituisce una non-città, un non-luogo, per usare la definizione di Marc Augé. Chi le sceglie è attratto dal mito di chiudere in un recinto molte attività che di solito hanno pertinenza pubblica: lo spazio per i giochi, l’officina, la tavernetta, l’orto, la fontana. Il modello è americano: cancelli automatici, videocitofoni, antenne paraboliche. Lo standard qualitativo tende però al basso: estetica naïf, porticati, nani di gesso”. Così l’accusano di essere il solito urbanista schifiltoso… “Ma lei ha presente la differenza fra queste che chiamano ‘città diffuse’ e i centri storici che ci sono in Italia? La loro qualità architettonica, la vivibilità. Mi lasci dire: la loro bellezza. Abbiamo sempre saputo che la perdita della bellezza coincide con la morte della città. La bellezza è stata colpevolizzata, si è deciso che non serve. Per chi era giovane nel secondo dopoguerra, ‘bellezza’ era un termine irritante, doveva riguardare solo parrucchiere e profumiere. Al suo posto dominavano ‘impegno’ e ‘utilitas’. Noi discutiamo tanto di identità italiana. Dove troviamo l’identità italiana se non anche nel profilo delle colline o nel paesaggio agrario? Prima di stendere un piano regolatore bisognerebbe individuare uno statuto dei luoghi, un complesso di elementi fisici che, se modificati, fanno perdere i caratteri e la specificità culturale di un territorio, di un qualunque territorio”» (Erbani) • «Se guardo a ciò che ho fatto e a quello che è rimasto, ho l’impressione di far parte di una foto ormai ingiallita. Sono stato fortunato di essere cresciuto nella bellezza di una strada, anche se malfamata. Ma l’ho capito tardi. A volte mi chiedo se sia stato testimone e artefice di qualcosa di importante. Vedo le cinquanta sfumature di nulla: il turismo sempre più di rapina, le città sempre più degradate, gli uomini sempre più stressati, e non ho la certezza che il mio mestiere di urbanista sia servito per chiarire o per difenderci da tutto questo. Però devi continuare a credere in quello che hai fatto. E se la vita ti ha dato troppo o troppo poco fallo dire agli altri. Oggi ammazzo il tempo prima che il tempo ammazzi me. Ho una sola preoccupazione, meglio una speranza: che i neuroni non si ritirino come le basse maree. Prego. Signore, allontana da me questo calice di stupidità».