La Stampa, 18 novembre 2022
Intervista a Serena Dandini
Parlare con Serena Dandini significa parlare di libertà, donne, emancipazione, anche quando sul tavolo ci sono le Cronache dal paradiso. Un romanzo che parte da un Eden intimo e personale, una vecchia villa di campagna in provincia di Viterbo, perduta ma viva nel ricordo, e conduce poi in luoghi lontanissimi nello spazio e nel tempo: la Francia del ’700, quella di Napoleone, una circumnavigazione intorno al mondo, le cacce alle farfalle di Vladimir Nabokov, la casa di Giverny di Claude Monet. Ci sono i fiori, le ortensie amate dalla nonna, le buganvillee considerate banali che hanno invece dietro una storia straordinaria, ma c’è soprattutto – costante – un anelito di libertà che è forse il filo rosso di tutto il lavoro di Dandini. In televisione, in teatro, nei libri, con ironia e irriverenza sempre. E con, al fondo, la voglia di cambiare il mondo di una ragazza cresciuta negli anni ’70, convinta delle ragioni delle lotte fatte e di quelle ancora da fare.
Leggere la storia di Alexandra David-Néel, incredibile viaggiatrice dell’Ottocento rimasta quasi invisibile, nonostante la sua vita straordinaria, e insieme quella di Jeanne Baret che ha circumnavigato il mondo travestita da maschio su una nave, e perfino quelle di Giuseppina Bonaparte o di Cristina di Svezia, fa pensare oggi alla battaglia straordinaria – anche questa poco raccontata – delle ragazze di Teheran.
«È la prima volta che una rivolta femminista ha avuto un effetto così dirompente, dandola spinta e il coraggio di ribellarsi a molte persone. È qualcosa di incredibilmente forte. A Firenze abbiamo dedicato un festival alle ragazze iraniane: è stato doloroso ascoltare le loro storie, fa venire una rabbia».
Le ascoltiamo abbastanza? O le trattiamo come qualcosa di lontano che non ci riguarda?
«Se ne parla, ma un po’ a latere, forse perché di fronte a questa ribellione ci sono meccanismi di potere giganteschi che appaiono inamovibili. Accade spesso che non ci si opponga alle ingiustizie per l’idea della loro ineluttabilità: “Il mondo va così”, diciamo, e invece basta una scintilla di coraggio, il coraggio che nasce da una ciocca di capelli fuori dal velo, a farti dire che forse no, le cose possono cambiare. Anche in questo caso sono in gioco il desiderio, il corpo, la volontà di controllarlo».
Nel libro a un certo punto la troviamo giovanissima a Kabul nel tentativo di uscire dal suo recinto. Oggi, a Kabul, le donne sono rinchiuse.
«Nella storia, e le vite di cui parlo lo raccontano, c’è sempre il desiderio di regolamentare i corpi delle donne. Ho visto la dichiarazione del ministro dell’istruzione afghano che dice: “Finché vivrò le donne non andranno a scuola”. Come si fa a dichiarare una cosa del genere? Perché il sapere delle donne fa così paura?».
Faceva paura il sapere di Jeanne Baret, che capiva di botanica quanto il suo maestro, ma non le fu mai riconosciuto. Fa riflettere la frase di Rousseau dell’Émile che riporta: anche l’epoca dei lumi era un’epoca in cui tutto era ancora da conquistare.
«Quella di Jeanne è una storia straordinaria: vuole circumnavigare il mondo, pur di farlo si traveste da uomo, si finge eunuco, cura con le piante come sempre hanno fatto le donne, e per questo venivano bruciate ome streghe. Non a caso metto quella frase di Rousseau: perché passi avanti ne abbiamo fatti, non vorrei ora ne facessimo indietro».
Vede un ritorno di oscurantismo?
«Sì ed è per questo che ho voluto parlare di paradiso in un momento così infernale. Capisco che questa ricerca di un mondo migliore possa suonare molto anni ’70, ma o recuperiamo quell’anelito o anneghiamo nel cinismo. Circondati da nazionalismi, egoismi, sovranismi. È tutto un chiudersi e invece questo è il momento di rilanciare».
Lo dice anche alla politica?
«Si sta concludendo questa Cop 27 e mi sembra che i passi avanti siano inesistenti. Come diceva Dostoevskij, noi tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo capirlo. Non si può non vedere che cambiamenti climatici, migrazioni, siccità, guerre, sono fenomeni legati a doppio filo. Non possiamo pensare di risolverli abbassando il termosifone di mezzo grado o fermando una barca. Ambiente e diritti dovrebbero essere le prime due voci nell’agenda di ogni politico».
È u suggerimento per il manifesto del nuovo Pd?
«Il suggerimento è che si dia una mossa, risolva questa crisi di identità, chiami uno psicanalista bravo invece di litigare anche sulle date. Sa perché è avvilente? Perché i valori di sinistra e i suoi ideali sono vivi nel Paese, tra la gente. Se il Pd non si sbriga, verranno incanalati da un’altra parte. È il momento di osare».
Crede che i diritti siano a rischio?
«La destra fa cose di destra, non ci possiamo meravigliare. Ma è un paradosso che debbano esserci cortei di donne in cui sfilano insieme madri, nonne, nipoti. Che si debba tornare a difendere diritti che credevamo acquisiti. Perché in realtà noi di diritti ne volevamo di più. E il momento di rilanciare è adesso. Solo che serve una sinistra che faccia la sinistra». Davvero ha la sensazione che si possa tornare indietro, ad esempio sull’aborto?
«Non ci sono solo le leggi, ci sono i cavilli che possono rendere le cose difficili o impossibili. Bisogna stare in guardia perché sono cicli, corsi e ricorsi. Mai avrei pensato di sentir risuonare valori come “Dio, Patria e Famiglia”. Ma ho fiducia nelle nuove generazioni: i ragazzi sono internazionali, hanno un senso del pianeta molto più forte del nostro. Sarà difficile riportarli indietro di 100 anni. Ma bisogna farli sognare, fargli credere che la politica può essere bella, che può cambiare le cose».
E invece appare sempre più pesante ed è difficile anche scherzarci su. Gli sketch televisivi della sua Tv delle ragazze, di Avanzi, dei programmi cult di quegli anni, non ci sono più. Quelli che ancora riguardiamo su Youtube o postiamo senza smettere di ridere. Cos’è cambiato?
«È sempre un discorso di coraggio e libertà. E oggi, è vero, si fa più fatica. Quando ho fatto La tv delle ragazze 30 anni dopo, ho rimesso delle cose di 30 anni prima: c’erano degli sketch che quasi avevano difficoltà ad andare in onda per quanto erano liberi. C’era un’altra mentalità. Oggi siamo tutti più spaventati».
Le manca quella libertà?
«Il teatro e i libri sono per me delle zone franche. Non ho nessuna nostalgia e nessun rimpianto. Mi piace ancora fare scouting, mi piace il lavoro di gruppo, non credo nel successo solitario, nella torre d’avorio».
Nel libro affiorano le figure di suo padre e di sua madre.
«Il fatto che mio padre abbia dilapidato tutto, che non mi abbia lasciato altra eredità che il suo sense of humor, è stata una grande fortuna: sono ripartita da zero, libera, mi sono rimboccata le maniche e ho ottenuto più di quanto avrei fatto se cullata in qualche privilegio. Sono un po’ underdog anch’io, come va di moda dire oggi».
E poi c’è sua madre, la nostalgia di una voce che non ricorda.
«Sono cresciuta col giuramento di Tara, non sarò mai come lei che aveva rinunciato a lavorare per obbedire al marito. All’epoca, vivevo le sue scelte come una sconfitta. E invece crescendo ti riconcili con fragilità che trovi anche dentro di te».
La Dandini sarcastica, irriverente, scanzonata, è diventata con Ferite a morte qualcosa di più. Quello spettacolo sui femminicidi ha fatto il giro del mondo. Da cosa è nato?
«Dalla rabbia di vite spezzate che erano solo numeri e che nessuno raccontava. Dal bisogno di fare su questo un enorme lavoro culturale che sleghi la donna, l’amore e il desiderio dall’idea del possesso. Per questo dico che serve l’educazione sessuale nelle scuole».
Già vedo gli striscioni: “Giù le mani dai nostri bambini”.
«Lo so ed è assurdo. Quando è nato quello spettacolo lottavamo anche per affermare la parola femminicidio, perché se una cosa non la nomini non la puoi combattere».
Lei ha detto che avere una donna premier è una buona notizia per tutte, le bambine di oggi sapranno che possono raggiungere quello ed altri obiettivi.
«È così, guardare la faccia di Berlusconi e Salvini al Quirinale è stato uno spettacolo, ma purtroppo le buone notizie finiscono qui. Perché poi, ahimè, al di là della simbologia, tutto l’apparato che è al governo sembra un ritorno al Medioevo. Questo dovrebbe essere un insegnamento per la sinistra. Credo che le donne di destra si siano fortificate perché hanno sempre dovuto combattere in un mondo apertamente maschilista. Quelle di sinistra invece si sono fatte tenere dietro da un mondo ugualmente maschilista, ma mascherato, paternalista, pronto a offrire strapuntini di cortesia. E invece, ragazze, per conquistare la leadership bisognava e bisogna combattere. È da questa consapevolezza che si può ripartire». —