Corriere della Sera, 18 novembre 2022
Intervista a Umberto Tozzi
Come sta?«Bene, adesso».
Prima no?
«Prima no. Ho avuto un problema di salute importante. Un tumore alla vescica. E poi, durante la chemio, ho preso il Covid per la terza volta. E mi è venuta una grave infiammazione polmonare».
Giorni durissimi.
«Ad aprile il mio cardiologo mi ha prescritto un’ecografia addominale. Doveva essere routine. Invece mi hanno trovato il male. È stato un periodo davvero difficile, adesso per fortuna ne sono fuori, un mese e mezzo fa mi hanno detto che sono guarito e incrociamo le dita».
I primi momenti.
«Queste cose qui ti cambiano la vita. La tua e di chi ti sta accanto. Mi sentivo perso, avevo paura di non poter mai più salire su un palco. Mia moglie Monica è stata fondamentale. Non mi sono mai arreso. Prima e dopo l’intervento, durante le terapie, che non sono una passeggiata. Finché non accade a te, il cancro sembra un problema lontano. Poi nella testa si resetta tutto: i valori, le priorità, le cose che contano. E anche quando guarisci, il trauma ti resta dentro».
Ha scoperto di sé qualcosa che non sapeva?
«Mi credevo debole, ho scoperto di avere coraggio. Mi ha stupito la serenità con cui sono riuscito ad affrontare la malattia. Ho messo da parte la paura, cercando di essere ottimista».
A vederla, qui davanti a me, sta benissimo.
«E mi sento davvero bene, a dicembre riprendo il tour “Gloria Forever” e non vedo l’ora. Però sono cambiato, noto in me una positività diversa. Apprezzo tutto ciò che ho e che mi circonda, dal momento in cui apro gli occhi, mentre recito le mie preghiere. Un gusto della vita che prima non avevo». E sorride, Umberto Tozzi, 70 anni e oltre 80 milioni di dischi venduti, i capelli più corti tra il grigio e il biondo («Da ragazzino, secondo la prof di italiano, erano rosso Tiziano, ne andavo fierissimo»), ma quando attacca con Ti amo e Gloria non ce n’è ancora per nessuno.
Bambino complicato, l’Umberto.
«Ribelle, facevo tutto il contrario di quello che mi raccomandavano i miei, andavo male a scuola. Volevo fare il ferroviere, come zio Matteo».
Papà Nicola era guardia notturna.
«Ha fatto tanti sacrifici per noi, lo vedevo giusto qualche volta che cenava a casa. Soldi, pochi. Il filetto l’ho mangiato per la prima volta a 18 anni. Ero sempre in strada. E mi cacciavo nei guai. Meglio sorvolare. Come minimo spaccavo qualche vetro. I vigili, con quei capelli, mi riconoscevano da lontano, pure al buio».
Prima chitarra al collo a 12 anni.
«L’aveva lasciata da noi un amico di mio fratello Franco, otto anni più grande, era lui che studiava musica. L’ho presa in mano e ho provato un’emozione strana, la sentivo mia. Misi su una band con amici della parrocchia, si andava di Beatles e Rolling Stones».
Lei ce l’ha fatta, suo fratello no. Ci è rimasto male?
«No, nessuna rivalità tra noi, quando ho cominciavo sul serio, lui aveva già smesso».
Dimenticati i treni, il sogno era diventare calciatore.
«Centrocampista con il fiuto del gol, avevo due piedi buoni. A 14 vinsi una settimana premio a Coverciano, papà mi proibì di andare perché avevo una pagella orribile. Ci soffrii molto, anche se no, non avete perso un grande campione, tranquilli».
Mito pallonaro di riferimento?
«L’unico a cui ho mai chiesto un autografo è stato Gianni Rivera. Lo incontrai in un’osteria di Milano frequentata dai calciatori di Inter e Milan e gli corsi dietro all’uscita. Purtroppo quel foglietto di carta l’ho perso. In famiglia erano tutti del Toro, io non ho una squadra del cuore. Ho amato Baggio e Del Piero, a prescindere. Da ragazzino tifavo Fiorentina perché c’era Kurt Hamrin con la maglia n. 7. Da grande ci ho giocato insieme con la nazionale cantanti».
Non le piaceva la sua voce.
«Ci ho messo decenni per apprezzarla, ora mi stimo. Alle prime registrazioni mi sembrava orribile. Pure Mick Jagger ha raccontato che nella sua non ci trova niente di così speciale, tantomeno di sensuale, eppure».
Nel 1974, a 22 anni, compose «Un corpo e un’anima» per Wess e Dori Ghezzi.
«Un giorno io e Damiano Dattoli ci siamo messi lì a scrivere e boh, ci è venuta questa cosa qui. Vinse Canzonissima, ma lo scoprii dal tg. Non pensavo di cantare, mi convinse Alfredo Cerruti della Cgd di Caterina Caselli. Andai a Firenze da Giancarlo Bigazzi, buttammo giù qualche canzone. “Un disco? Io? No, grazie”. Non avevo nessuna voglia di fare la star».
Però «Donna amante mia» fu un successo.
«Un fiasco, vorrà dire. L’ellepì vendette 5 mila copie, un disastro. Per il secondo album però puntai i piedi: “Gli arrangiamenti li faccio io”. Mi chiusi in studio con quattro musicisti e un cartello scritto col pennarello “No disturb” appeso fuori, sennò ogni minuto entrava qualcuno. “Se non va bene, questi qui ci buttano giù dal quarto piano”, scherzò Bigatti, ma mica tanto. Andò bene, un cu... pazzesco, tra i pezzi c’era Ti amo».
Estate 1977. Una dedica per qualcuna?
«No, suonava bene, anche ripetuto così tante volte. La scrissi in un pomeriggio. Le canzoni non nascono da niente di particolare, nascono e basta. Certo ci vuole il talento, ma anche fortuna. Non esiste una ricetta, come per una salsa».
Per «Fammi abbracciare una donna che stira cantando...» è stato ripetutamente messo in croce.
«È una bella frase invece, mi piace ancora, mai stato antifemminista in vita mia. Era un flash, rivedevo mamma Immacolata».
Agli esordi incrociò Lucio Battisti.
«Alla Ricordi di Milano, primi anni Settanta. Era e resta uno dei più grandi. Io e i miei compagni eravamo dei ragazzini venuti da Torino, non so come riuscimmo a infilarci in quel gruppo. “Siete dei bei paraculi”, osservò Lucio».
Il suo amico Raf sostiene che lei è un ritardatario cronico.
«Vero. Ma è esattamente quello che racconto anch’io di lui. Per questo andiamo d’accordo. Ci vogliamo bene, però ci diciamo le peggio cose, così si fa. Senti chi parla, poi. Quando andammo a Bruxelles per l’Eurofestival con Gente di mare, era il 1987, eravamo tutti giù ad aspettarlo nella hall dell’hotel, ma di Raf nessuna traccia. Non rispondeva nemmeno al telefono della stanza. Mandarono me a cercarlo. Bussai forte alla porta. Mi aprì dopo qualche minuto, quasi stupito. Si stava asciugando i capelli con il phon».
Dice pure che a tavola è lungo come una quaresima.
«Vero pure questo, perché mastico piano, mi gusto il cibo. Anche a calcio ero sempre l’ultimo a uscire dagli spogliatoi, quando gli altri erano già sul pullman. Portavo i capelli lunghi, ci voleva tempo».
Ma è vero che in ritiro con la nazionale cantanti vi tenevano a dieta e il coprifuoco, la sera prima del match, scattava alle dieci ?
«Sì, ma non l’ho mai rispettato. Ero nel gruppetto di quelli che scappavano dalla finestra, per questo chiedevamo sempre le stanze al piano terra. Però dai, ho segnato una cinquantina di gol, 12 volte capocannoniere».
Il fallaccio più scorretto mai subito?
«Da Riccardo Patrese, durante una partita sotto la pioggia a Padova. Non ho mai capito perché. A gioco fermo, bofonchiando qualcosa che non capii, mi sferrò un calcione negli stinchi. Ma anch’io certo ero una testa calda, quando ero rosso poi ancora di più. Se guardo le foto di Jannick Sinner, sempre scarruffato, mi sembra di vedere me alla sua età».
Amici tra i colleghi ne ha?
«Pochi. Con Gianni Morandi e Enrico Ruggeri ci siamo frequentati, certo. E pure con tutti quelli della nazionale cantanti. Ma Raf l’ho vissuto di più».
Che in altri sia scattata l’invidia?
«No, non credo. Io non ne provo per nessuno, invidiare il prossimo è stupido, si vive male».
Risiede a Montecarlo ed è tra le poche teste non coronate ammesse a Palazzo.
«Conosco abbastanza bene il principe Alberto. Fuori dal protocollo, i reali sono persone assolutamente normali. Lui poi è un vero fan di Gloria, è venuto pure a sentirmi in concerto allo Sporting».
«Con le donne ho preso un sacco di batoste», ha confessato.
«Mai detto. O hanno frainteso. Le ho lasciate sempre io».
Io non ti merito, tu sei troppo per me, le solite scuse?
«No, giuro. Ero un gentleman educato, mai stato un playboy. Anzi, non capivo bene perché si innamorassero di me».
Lei e Monica vi siete sposati quattro volte: in comune, in chiesa, alle Mauritius e a Montecarlo.
«E vorrei rifarlo una quinta, ma non so se lei a questo punto vorrà risposare me. Sono stato molto fortunato a incontrarla, stiamo insieme da 36 anni».
Un uomo che ama le cerimonie, i preparativi, il pranzo, i parenti...
«No, no, ci siamo sempre sposati senza troppi rituali, l’ultima volta siamo andati a pranzo in sei: noi due, i miei figli e sua sorella. Adesso ho tre nipoti, certo, ma ce la caviamo al massimo con un tavolo per dieci».
Si è messo a dipingere.
«Mi piace, vorrei fare una mostra, ma non sono né Gauguin né Van Gogh eh. Ho cominciato dal nulla, da autodidatta, io che non sapevo nemmeno fare un cerchio con il bicchiere. Mi sono appassionato, mi è venuto naturale. Non credevo di poter trovare una forma d’arte che mi prendesse tanto quanto la musica. Quando compongo non mangio e non bevo, sono troppo concentrato. Resto una pippa come pittore, sia chiaro, mi contento, ma al Tozzi gli si vuole bene lo stesso, dai».