Corriere della Sera, 18 novembre 2022
Intervistaa Gianfranco Miccichè
Nemmeno il tempo di avvertire il giornale e dire che c’è un Miccichè croccante sulla scissione siciliana di Forza Italia.
Richiama dopo dieci minuti.
«Uno scrupolo: faccia capire bene che io, comunque, uomo di pace sono».
Eravamo partiti bassi. «Che significa, scusi, un ritratto parlante? Ma per fare il mio ritratto non andrebbe bene nemmeno Guttuso, ha presente Guttuso, sì?»: e poi però è entrato subito nella parte di Gianfranco Miccichè, 68 anni, palermitano, a lungo viceré forzista di un’isola che nel 2001 si prese con quel brutale 61 a 0 (i collegi elettorali che portò in dote ad Arcore, dove fu incoronato), quindi blandito e temuto, iracondo (soprattutto con i giornalisti, con Tremonti, una volta s’arrabbiò con i cinesi «che si portano via il tonno rosso con gli ultrasuoni») ma pure pronto a botte di inattesa simpatia, capace di polemiche feroci (disse che intitolare l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino «trasmette un’immagine negativa a chi arriva in Sicilia») e tuttavia sempre veloce a chiedere scusa, molto invidiato (stupefacenti passioni confessabili: le belle donne e le barche), attualmente impegnato nella difesa ostinata e vagamente struggente del potere accumulato («Non me ne frega niente di essere senatore: io, a Roma, non ci vengo. È qui a Palermo che conto, e voglio continuare a contare»).
Cronaca battente.
L’altro pomeriggio, il viceré (fate conto un pit bull a cui hanno messo un dito nel naso) strappa con il presidente della Regione, Renato Schifani, colpevole di averlo ignorato nella scelta degli assessori; fonda un gruppo parlamentare con quattro fedelissimi deputati; e diffida il centrodestra dall’usare il simbolo di FI («Il coordinatore del partito, e legale rappresentante in Sicilia, io sono»).
Prima sensazione: stanno cercando di farlo fuori. Seconda sensazione: fanno male a lui, a Miccichè, per fare male politicamente anche a Licia Ronzulli, la sua capogruppo a Palazzo Madama, con cui gestì la celebre rivolta contro l’elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato.
C’è Giorgia Meloni, dietro tutto questo?
«Della Meloni non parlo. Però è chiaro che sto subendo cose inaudite. Ma perché mi rompono così tanto i cosiddetti?».
Perché, gira voce, la premier non le perdona di aver bloccato la candidatura di Musumeci a governatore. E di aver guidato, con la Ronzulli, quella fronda contro La Russa.
«Quel giorno mi dissero che Berlusconi era dispiaciuto perché lei, la Meloni, continuava ad opporsi all’ipotesi di un ministero per Licia, mentre non aveva nemmeno chiesto il permesso per candidare La Russa come seconda carica dello Stato...».
La Meloni, in aula, ostentatamente, venne a salutare il Cavaliere e la ignorò.
«Veramente fui io a spostarmi, per farle spazio. Comunque: questi lo sanno che, in Sicilia, il centrodestra governa grazie a me, che ho portato FI ad essere il primo partito con il 15%?».
Il no a Roma
«Mi avevano proposto la vicepresidenza del Senato. Volevano solo inchiodarmi a Roma»
Grazie a lei e anche, forse, a Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro.
«Guardi, questi vogliono togliere potere a me. Ma gli conviene? Lo sanno che sono la persona di fiducia del Cavaliere?».
Vi siete sentiti?
«Io lo sento tutti i giorni. Vediamo che ha detto a Schifani. Del resto lo sappiamo di che pasta è fatto, Schifani. Ce la ricordiamo la fuga d’amore con Alfano. Soprattutto, mi ricordo di quando venne a implorarmi di rientrare in FI, dopo che la Meloni gli aveva detto no, guarda: per uno come te, dentro FdI non c’è posto».
Che dice il Cavaliere di questa scissione all’Ars?
«È molto dispiaciuto».
Anche lei, forse, è dispiaciuto. Nemmeno mezzo incarico in questo nuovo governo.
«Sbaglia. Mi hanno proposto di fare il vice-presidente del Senato, ma ho rifiutato. Volevano solo inchiodarmi a Roma, i furbetti».
Un osso duro. Con tanta politica addosso. Tre volte deputato, un giro pure a Bruxelles. Tre volte sottosegretario, una persino ministro (Sviluppo e Coesione territoriale, 2005-2006). Anche l’astuzia di restare un autentico berluscones nonostante un po’ di partiti inventati e sciolti come cannoli al sole (a memoria: Sicilia Futura, Rivoluzione Sicilia, Forza Sud).
Raccontò Marcello Dell’Utri: «Per costruire il partito di Silvio, usammo gli uomini di Publitalia. Non sempre i più bravi: quelli fummo costretti a tenerceli quasi tutti per il fatturato. Ma qualcuno lo sacrificammo». Miccichè, appunto. Che, dopo aver lasciato il quotidiano Lotta Continua nello zaino dell’università, si era tagliato i riccioli e, in ghingheri, era entrato prima all’Irfis, l’agenzia finanziaria per il mediocredito siciliano, e poi, appunto, nella concessionaria di pubblicità delle reti Fininvest (colpaccio d’esordio: un contratto con l’amaro Averna).
Insomma: viene da lontano.
L’ultima volta che l’ho incontrato, un paio di settimane fa, se ne stava davanti a un piatto di crudi, e li mangiava a mani nude, scialandosi, succhiandosi le dita, una risata e un bicchiere di Chablis, da vero potente che al potere non rinuncia (era seduto al ristorante La Rosetta, dietro al Pantheon: perché è comunque qui, a Roma, che si decide sempre tutto).