il Giornale, 18 novembre 2022
Sul nuovo album di Francesco Guccini
Meno male che Guccini c’è. Amato e odiato, contestato e contestabile, a 82 anni cammina dondolando ma parla dritto come sempre. Polarizza. Divide. Ma, evviva, ha delle idee e le rivela mentre la stragrande maggioranza dei suoi colleghi si nasconde dietro l’opportunismo dei silenzi o delle frasi fatte. «È un giorno pessimo, mi hanno appena fatto le solite sedici domande» dice con il suo solito tenero snobismo prima di spiegare l’idea di cambiare idea.
Dieci anni fa aveva detto che L’ultima thule sarebbe stato il suo ultimo disco e invece ecco qui Canzoni da intorto, disco che esce soltanto in formato fisico perché Guccini è quella cosa lì, fisica e non digitale e lui, dopotutto, ignora «cosa sia lo streaming».
Il nuovo, vecchio Maestrone è tutto qui, così moderno nel rifiutare la modernità a prescindere e così riconoscibile nel raccontare il presente con il dizionario del passato. Le canzoni da intorto sono attualità vintage: «Sono i brani marginali che pochi o nessuno conosce e che canti e racconti per affabulare, insomma per far vedere che sei un fighetto». Quindi ci sono la ballata popolare Morti di Reggio Emilia, quelle in dialetto milanese (El me gatt, Ma mì – firmata anche da Giorgio Strehler – e la jannaciana Sei minuti all’alba), e poi l’inglese di Green sleeve, l’anarchica Addio a Lugano, le poetiche Tera e aqua e Quella cosa in Lombardia oltre a una ghost track cantata in ucraino, Sluga Naroda: «Sono canzoni dei perdenti, e noi adesso siamo perdenti» dice alludendo alla situazione politica. «Ovvio che la congerie politica attuale non mi lascia indifferente. A scuola, quando studiavamo l’Iliade, c’era chi nella mia classe stava con i greci, io sono sempre stato dalla parte dei troiani. Dei perdenti, appunto. Nei miei pezzi si capisce da che parte sto. Non ho mai nascosto le mie idee». Talvolta forse ha lasciato che fossero interpretate a piacere.
Insomma Guccini è stato per decenni il simbolo del cantautore schierato a sinistra, all’estrema sinistra. «Una volta all’amico Sergio Staino dissero: Guccini si sa che è comunista. Era una considerazione sbagliatissima perché De Gregori, ad esempio, era comunista ma io no, io sono sempre stato anarchico, anche se sembra strano parlare di anarchia nel 2022». Risate.
Francesco Guccini ha deciso di presentare le sue canzoni da intorto in un posto che rappresenta l’iconografia di questo cantascrittore che voleva fare il giornalista ma poi è diventato il maestrone della canzone d’autore. E, quando arriva sul piccolo palco della Bocciofila Martesana, le sue parole rimbombano dove di solito corrono le bocce. «De Benedetti ha detto che il Pd è il partito dei baroni? È una definizione ingiusta. Dopotutto è difficile che un grande capitalista possa avere simpatie per il Pd». Sicuro? «La Moratti? Non mi sembra che in passato abbia lavorato molto con la sinistra, fa bene il Pd a non appoggiarla».
Qualcuno gli fa notare che nella scaletta delle Canzoni da Intorto non ci sono brani della tradizione fascista. E la risposta non fa una grinza: «Talvolta canto anche quelle, ma non tutte perché spesso sono ridicole, a parte La sagra di Giarabub e Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera, scritta quando il fascismo era alla fine». Siamo sempre lì. «Dal simbolo di Fratelli d’Italia non hanno tolto la fiamma e non mi piace. Però si sono dichiarati contro i totalitarismi anche se il professor Alessandro Barbero dice che il comunismo è imparagonabile al nazismo, e di conseguenza al fascismo, perché aveva un fondo di speranza mentre gli altri totalitarismi non ce l’avevano».
Ma alle richieste di parlare dell’altro mondo – ossia della politica e di tutto il resto – Guccini cede a fatica. Preferisce il proprio mondo, quello che ha cantato e scritto e lasciato intendere in questi ultimi sessant’anni: «Dopo l’ultimo tour avevo deciso di smettere perché non riuscivo più a scrivere canzoni, non ne sono più capace, inutile che mi sforzi. Non ho detto che non avrei più cantato ma solo che non avrei più fatto dischi con canzoni mie».
Difatti i nuovi brani sono tutti consegnati direttamente dalla tradizione e rielaborati, suonando una trentina di strumenti, grazie alla supervisione di Fabio Ilacqua con Stefano Giungato. E poi la voce, la sua voce. «Di certo non è stato facile cantare in ucraino» dice con quella erre riconoscibilissima. «Dopo tanto tempo tornare a cantare non è stato facile. Ho fatto una fatica della madonna. Un po’ come un centometrista che corre in dieci secondi, poi smette e torna dopo anni: la velocità non sarà più stessa».
Però l’intensità è la stessa e queste canzoni sono la testimonianza di un tempo andato che oggi nutre soprattutto la memoria (ogni tanto fa bene).