la Repubblica, 17 novembre 2022
Uccidere Goebbels con una sigaretta
Esce per la prima volta in Italia il volume che raccoglie i sogni del grande scrittore. Impegnato, anche durante il sonno, in missioni da agente segreto. Ne pubblichiamo qui un estrattoNel Mondo tutto mio le mie esperienze nell’MI6 sono state molto più interessanti del lavoro d’ufficio che ho svolto nei tre anni in cui ho lavorato per i servizi segreti nel Mondo comune. Cosa strana, della dozzina di personaggi che conobbi a quel tempo solo un paio si sono fatti strada nel mondo di cui sto scrivendo adesso. Forse la legge sul segreto di Stato arriva a proiettare la sua ombra fin laggiù. Tra le mie esperienze, la più avventurosa, più nello spirito della Cia che dell’MI6, è stata probabilmente una certa missione in Germania.Ricordo di essere entrato in un salotto riccamente arredato nel quale sedeva Goebbels, su una poltrona dorata. C’erano varie altre persone nella stanza e io mi trovavo in piedi accanto a un camino in marmo in attesa della mia occasione, perché avevo con me un’arma segreta per uccidere Goebbels: una sigaretta il cui fumo gli sarebbe stato rapidamente fatale una volta inalato. Cercavo di stare vicino alla mia vittima e di reggere la sigaretta in modo tale che il fumo potesse raggiungerla, ma persi la pazienza e ficcai il mozzicone su per una delle sue narici, e poi fuggii dalla stanza. Speravo che il veleno agisse in fretta, e che la confusione che ne sarebbe venuta rallentasse l’inseguimento.La strada era libera e svoltai a destra, poi, rendendomi conto che potevano vedermi dalle finestre, tornai indietro tenendomi troppo rasente al muro per essere visibile e girai a sinistra. Presi diverse strade laterali, ma dovetti ritornare sulla via principale perché mi era stato detto di andare alla stazione Nord e prendere un treno. Non c’erano soldati o polizia in vista, ma naturalmente era possibile che mi stessero aspettando più avanti. Fui tentato di svoltare in un parco dai lunghi viali vuoti, ma obbedii agli ordini e quasi immediatamente avvistai la stazione, una piccola stazione locale. Qui trovai il mio contatto e un treno era già in arrivo. Presi due biglietti fino al capolinea e mi resi conto troppo tardi di aver commesso un grosso errore, perché il capolinea si rivelò essere Wapping, e di sicuro acquistare un biglietto per Wapping avrebbe reso evidente che ero un agente straniero. La stazione di frontiera era quella prima di Wapping, e io ero sicuro che lì saremmo stati intercettati. Dobbiamo però essere passati sani e salvi, comunque, altrimenti ora non sarei vivo a raccontare questa storia.** *Non so come, ero venuto a sapere di nuovi materiali riguardanti Kim Philby. A quanto pareva, aveva reclutato Ernest Hemingway perché facesse rapporto sui rifugiati da Hong Kong. Hemingway era a corto di denaro e in questa maniera guadagnava circa cinque sterline alla settimana, di cui aveva disperato bisogno per la sua famiglia.** *Nel 1980 incontrai l’ambasciatore russo a una grande festa. Gli parlai subito prima di andarmene e glichiesi se fosse interessato a leggere un mio pezzo che conteneva delle critiche sull’MI6. Disse di sì. Non avevo affatto la sensazione di essere un traditore: mi pareva un bene per entrambe le parti che lui lo leggesse.** *Una volta dovevo prendere un volo per Dakar, ma ci fu un po’ di confusione all’aeroporto quando dovetti telegrafare all’incaricato locale dell’MI6 per annunciare che sarei arrivato l’indomani mattina. Da Dakar avrei proseguito fino a Freetown, in Sierra Leone, dove il nostro incaricato era Trevor Wilson, che avevo conosciuto durante la seconda guerra mondiale e poi in Vietnam. Mi capitò di ascoltare un’interferenza telefonica. Un funzionario stava chiedendo una mia foto – a quanto pareva, l’agenzia di stampa cinese poteva fornirgliene una. «Vogliono farmi sembrare un muso giallo», pensai per rassicurarmi.** *Stavo lavorando a Londra insieme ad altre persone in un’ampia sala che assomigliava alla vecchia stanza dei redattori aggiunti di quandoero alTimes. Conducevo un’inchiesta su un agente doppio che risultava collegato a una spia tedesca di nome Serge. Mi avevano detto che il capo dell’MI6 era particolarmente interessato al caso e io provai un certo orgoglio nel telefonargli direttamente, di fronte ai miei colleghi. Il mio diretto superiore, che assomigliava molto a George Anderson, caporedattore agli interni all’epoca in cui lavoravo al Times, negli anni venti, mi disse: «Dubito che parlerà con te. Ha appena ordinato un bicchiere di porto». Invece C mi parlò eccome, e iniziò la conversazione inveendo contro gli articoli diffamatori apparsi la settimana prima sullo Spectatore sul New Statesman. «Gli faremo causa se non tirano fuori le prove», dissi, «e questa settimana stessa».Poi C venne giù a trovarmi: un ometto curato e affabile, con il monocolo. Uno dei miei colleghi – che somigliava moltissimo al colonnello Maude, vice caporedattore ai tempi delTimes – si unì alla conversazione. Io raccontai che quella settimana ilNew Statesman aveva scritto che il precedente C aveva lasciato sulla scrivania documenti top secret destinati al capo del Foreign Office, che chiunque avrebbe potuto leggere.** *A giugno del 1965 mi ritrovai nuovamente in Africa occidentale per conto dei servizi segreti. In una stazione ferroviaria i miei bagagli furono rubati da un africano che avevo scambiato per un facchino. Andai a cercare il capostazione inglese – il classico tipo coloniale – nel suo ufficio. «Posso parlarle?», chiesi e lui rispose sgarbatamente: «Non ora». Mi arrabbiai e insistetti. Sapevo di non piacergli perché non avevo una posizione ben definita nella colonia. Fu condotto davanti a me un africano che indossava una lunga veste bianca, e io dissi che quello non era certamente il ladro. L’uomo aveva viaggiato sul mio stesso treno e gli chiesi se avesse visto qualcosa. In quel momento vidi con la coda dell’occhio qualcuno con la stessa camicia a righe che indossava il ladro. «È lui», dissi, ma quando si voltò vidi che era un uomo bianco dal viso avvizzito.** *Più avanti, quello stesso anno, lavoravo in Turchia per l’MI6 e mi trovai in guai seri. Avevo chiesto un aumento di stipendio, il che aveva condotto a una lunga inchiesta. Era cominciata in maniera abbastanza discreta, finché non avevano voluto sapere quanto spendessi per gli alcolici in un anno. Siccome li acquistavo esenti da dazi negli aeroporti, non potevo fornire una cifra più alta di duecento sterline, che fu considerata con sospetto, credo.Un tizio nuovo, un certo generale Gates, arrivò in uniforme da Londra e cominciò a fare il giro della grande sala in cui sedevamo, presentandosi. Con me c’era la mia amante, molto bella, con indosso una costosa giacca di pelliccia. Dissi: «Non è questione di sprecare denaro... Potrei guadagnare molto di più se lasciassi i servizi segreti e tornassi a casa». Avevo la sensazione che mi sospettassero di tradimento.