Corriere della Sera, 17 novembre 2022
137 calciatori giocheranno in Qatar con paesi in cui non sono nati
Se sei cresciuto fino a 11 anni nel terzo campo profughi più grande del mondo (180mila persone), a Kakuma in Kenya, dopo che i tuoi genitori sono fuggiti dalla guerra in Sud Sudan, è normale che il Paese per il quale scegli di giocare a calcio sia quello che ti ha adottato, cioè l’Australia.
Per Awer Mabil, che downunder ha esordito a 16 anni per poi giocare in Danimarca, Portogallo, Turchia e ora in Spagna, è stata comunque una scelta non banale: per qualche episodio di razzismo vissuto, ma anche perché il legame con Kakuma è rimasto forte (spedisce scarpe e indumenti per giocare). Vorrà dire che contro Francia, Danimarca e Tunisia, l’Australia avrà migliaia di tifosi in più. Stesso discorso per Alphonso Davies, molto più celebre di Mabil (che gioca nel Bayern), stella del Canada, che ha accolto la sua famiglia vissuta in un campo profughi durante la guerra in Liberia.
È la prima volta che in un Mondiale giocano due calciatori nati con lo status di rifugiati, ma in generale quello pronto a rotolare in Qatar, più che a un pallone assomiglia a un mappamondo: in Russia c’erano 83 giocatori in campo per Nazionali diverse da quella del Paese dove sono nati; adesso sono 137 gli «oriundi» suddivisi in 28 squadre (su 32), per un totale di 53 nazioni rappresentate (erano 51 nel 2018).
Sono soprattutto i figli degli immigrati africani in Europa, anche di vecchia generazione come quelli francesi, a scegliere la Nazionale dei padri: per amore delle radici e a volte per convenienza: ma Ziyech del Chelsea poteva vestire la maglia del’Olanda e invece gioca per il Marocco. Sono ben 37 i nati in Francia che non giocano per i Bleus, sparsi fra Marocco, Tunisia, Camerun e Ghana. Ma alla mescolanza di bandiere, di religioni, stili di vita e anche stili calcistici, contribuiscono anche multinazionali come il Qatar (10 nati fuori), l’Australia, il Canada e la Croazia.
Un caso a parte è il Galles, che ha 9 giocatori nati in Inghilterra. Ma non tutto è così semplice come sempre: Ethan Ampadu dello Spezia ha giocato con le giovanili inglesi, poi ha scelto il Paese della madre, però poteva optare anche per il Ghana, dove è nato il padre, o l’Irlanda dove il genitore si è stabilito, prendendone il passaporto. Del resto la complessità non si esaurisce facilmente: il portiere del Giappone è Daniel Schmidt, è nato in Illinois e ha scelto di giocare per il Paese della madre dove è cresciuto.
La mescolanza del pallone segue i cambiamenti: sono sempre meno gli svizzeri nati all’estero (da 8 a 3) perché ormai l’immigrazione si è radicata nel Paese e i calciatori di origine africana o sudamericana nascono a Zurigo o a Ginevra. Certo ci sono sempre vecchie ferite, come quelle del kosovaro Shaqiri. In Russia scoppiò la polemica per l’esultanza, sua e di Xhaka, a mimare l’aquila contro i serbi. Il calendario si è divertito a riproporre Svizzera-Serbia, ma la federcalcio di Berna ha già vietato gesti a sfondo politico.
Diversa la storia dei fratelli Williams, primi giocatori di origine africana a militare nell’Athletic Bilbao, custode dell’ortodossia basca: Inaki, il pioniere, ha scelto il Ghana, paese d’origine dei genitori, mentre Nico, più giovane e in rampa di lancio, ha risposto ben volentieri alla chiamata della Spagna. L’importante «è non dimenticarsi mai delle radici» come dice l’attaccante del Bari Walid Cheddira nato a Loreto e chiamato dal Marocco: è uno dei tre nati da noi (assieme al polacco Zalewski della Roma e al francese Thuram, nato a Parma quando ci giocava papà Lilian). È un po’ la stessa cosa che hanno fatto i giocatori degli Stati Uniti, cinque dei quali nati fuori dagli States, appena arrivati in Qatar con la loro Nazionale: hanno giocato una partitella con una squadra di lavoratori migranti.