Corriere della Sera, 17 novembre 2022
Intervista ad Alexia
Quando si è accorta di avere una bella voce?
«Me ne sono accorta da bambina, nei bagni della mia scuola dell’infanzia».
Alexia, nata Alessia Aquilani, voce potente e cristallina che ha plasmato una buona fetta degli anni Novanta diventando – anche all’estero – «la regina della dance», parla con la serenità di chi ha conosciuto il successo e non ha avuto paura di prenderne le distanze. Milioni di dischi venduti, quattro partecipazioni a Sanremo dopo la svolta nel pop, conquistando anche una vittoria, nel 2003, e incursioni nel jazz, nel soul, fino alla scelta di tornare ora con un album di Natale, «My XMas», fatto rigorosamente a modo suo. Tradotto: «È un disco anche molto divertente».
Torniamo però ai bagni dell’asilo...
«In generale, il bagno è un posto in cui ti rilassi. Poi ci sono le piastrelle, che fanno un po’ l’effetto del microfono, creano un’acustica particolare. Un giorno, nei bagni dell’asilo appunto, me ne sono accorta e da quel momento mi chiudevo lì e iniziavo a cantare. Solo che dopo qualche tempo le insegnanti si sono insospettite per questi miei allontanamenti e hanno capito perché mi chiudessi lì. Così aspettavano che ci andassi per venirmi ad ascoltare fuori dalla porta. Quando me ne sono accorta ho smesso. Ma quella, di fatto, è stata la mia prima audizione».
E anche il suo primo successo.
«Dopo poco iniziarono a chiedermi di cantare alle recite e a cinque anni già mi esibivo, con il microfono in mano, da solista. Ricordo di aver cantato anche accompagnata da un’orchestra ideata da un professore molto illuminato, composta solo da ragazzini della mia cittadina (Arcola, in Liguria, ndr.), davanti a una platea piuttosto ampia. Mia mamma, che era una sognatrice, lì ha iniziato a credere nel mio talento».
Sembra tutto molto bello, no?
«In realtà in una cittadina di provincia come quella in cui vivevamo, all’inizio era stata un po’ indicata come la mamma che chissà dove voleva spingere la sua povera figlia. Mia mamma invece, nella sua semplicità, aveva una tale forza e anche una grande saggezza che semplicemente la portava a dire: cavoli, mia figlia ha talento».
In casa sua nessuno cantava?
«Mio papà cantava benissimo, aveva una voce tenorile. Avrebbe voluto tentare anche lui la carriera di cantante ma una volta, durante una festa di piazza, decise di cantare un brano e siccome non studiava mai molto bene, ha mollato una stecca davanti a tutti... Da quel momento ci ha fatto una croce sopra. E da quel momento mi sono detta: io voglio studiare».
Lo ha fatto?
«Moltissimo, da autodidatta prima, cercando di trovare i metodi più giusti per me, studiando sui dischi di cantanti bravissime. Ma non avevo la tecnica, non sapevo come si comportassero le mie corde vocali. Nel mentre avevo iniziato la famosa gavetta e lavoravo tanto, un’estate anche per 45 serate di fila... e ho avuto dei problemi alle corde vocali. Mi sono dovuta fermare per un po’. Quindi ho deciso, a vent’anni, di intraprendere questo percorso più seriamente, con un insegnante di canto lirico».
Ha mai pensato di diventare cantante lirica?
«Mi affascinava molto quel tipo di canto: ero improvvisamene cosciente di quello che riuscivo a fare grazie a un’impostazione lirica. Poi però il richiamo verso la musica soul, il jazz e il blues era talmente forte che una cosa escludeva l’altra. Cantavo con diverse cover band, andava benissimo tutto, pur di fare esperienza, di esibirmi dal vivo. Ho fatto anche delle cover di liscio: non dico mi venissero benissimo, ma mi sono dovuta adattare. Poi, finito questo primo periodo di gavetta, ho iniziato a lavorare negli studi di registrazione: facevo dei turni come corista».
Un percorso ben diverso rispetto a chi, oggi, viene lanciato da un talent show o diventa famoso grazie a visualizzazioni o streaming.
«Era tutto un altro mondo. Quando iniziavi a proporre i tuoi progetti all’inizio venivano puntualmente scartati. Le porte in faccia erano tantissime ma solo così cominciavi a capire come ti dovevi muovere. Raggiungere un primo contratto non significava andare in tv immediatamente. Dovevi farti conoscere in giro e fare assaggiare il tuo prodotto un poco alla volta».
La prima grande occasione?
«Quando ho iniziato a lavorare con Ice MC. Quando è arrivato il boom avevo per fortuna le spalle forti, dopo due anni di tournée con lui. Osservando Ice, cioè Ian, ho intuito che bisogna fare molta attenzione perché il successo arriva ma poi se ne va anche via. Bisogna ottimizzare quello che si sta ricevendo cercando di avere un atteggiamento professionale e preparandosi un terreno per il futuro. La mia regola è sempre stata lavorare come se fosse l’ultima volta».
Aveva dunque la sensazione che le cose potessero presto cambiare?
«C’è stato un momento in cui mi sono resa conto che inseguivo delle cose che non mi appartenevano più. Quando inizi un percorso artistico sai come ti vuoi esprimere ma poi si cambia, si evolve e ho cominciato a desiderare altro. Ma proprio in generale. Ho ripreso a studiare: sono sempre stata appassionata delle lingue straniere ma non avevo avuto il tempo di applicarmici, così l’ho fatto. Poi volevo esserci per la mia famiglia e quindi ho iniziato a organizzare il mio lavoro in base a queste nuove esigenze».
L’idea, da fuori, è che non si sia più riconosciuta in un mondo discografico che, nel frattempo, era completamente cambiato. È così?
«Non sono mai stata brava a sgomitare, anzi. A un certo punto mi sono accorta che le case discografiche non cercavano più dei bravi cantanti, ma altro. Gente che magari avesse anche una storia impattante, un percorso che emoziona in modo particolare. Io non posso continuare a raccontare che quando è morto mio papà ho avuto una piccola depressione: avrò dovuto elaborare un lutto, no? Sono forse l’unica al mondo? Posso davvero ripetere all’infinito queste cose? Quindi ho deciso di fare un passo indietro e continuare a lavorare nelle sfere dove Alexia ancora conta qualcosa».
Quali sono queste sfere?
«All’estero sono ricercatissima nella musica dance. Per il resto, quando hai tanti streaming arrivano i bravi produttori e i bravi autori ma quado un artista non fa streaming, può essere bravissimo, ma si fa più fatica. Ho dei progetti inediti molto interessanti, pronti per essere utilizzati, ma aspetto il momento giusto».
Le pesa non essere eccessivamente social?
«Ma come posso io, a 55 anni, mettermi a fare i TikTok? Ma siamo matti? Cosa faccio, i balletti? No, non ho proprio il carattere, non mi sentirei a mio agio. Oltre al fatto che sarebbe come chiedermi di ricominciare tutto da zero: ci vuole anche un pochino di stile. Non posso cercare di apparire, di essere attrattiva per i giovani spingendo sulla baracconaggine. Piuttosto io, piano piano, con i miei follower che – magari lentamente – però crescono, mi creo un seguito che però è solo mio, reale, concreto».
È frustrante scontrarsi con la logica dei numeri e della visibilità fine a sé stessa?
«Beh sì. Fai progetti molto interessanti penalizzati da questo aspetto. Il mio produttore però mi ripete sempre: “Sai quanti brani escono ogni settimana? Ottanta”. Per dirmi che per forza vanno spinti... quindi razionalizzi tutto... ma nessuno mi può impedire di fare quello che davvero mi piace».
Come questo disco di Natale?
«Sì, dopo trent’anni mi sono detta: lo faccio, ma tutto in inglese. Per promuoverlo farò più eventi live che televisione. È un disco allegro, dove c’è tutta la mia anima: soul, blues, pop-rock. Porta leggerezza in un momento in cui serve».
Il ricordo di un suo Natale?
«Mi viene in mente quello del 2006, in cui ero sposata da un anno con mio marito ed ero in attesa della nostra prima figlia. Quel Natale nevicava a Milano e avevamo deciso di rimanere a casa... ripenso all’albero enorme che dovevamo montare in salotto, al pancione ormai grande e alla gioia incredibile che sentivo nel cuore. Un anno dopo la nostra bimba, precoce in tutto, già stava in piedi e mi aiutava a decorare a modo suo quello stesso albero, nello stesso salotto».
Oggi le sue figlie le danno consigli a proposito del suo lavoro?
«La più grande mi prende un po’ in giro, mi dice che dovrei farei dei podcast in cui parlo dei cantanti che mi piacciono. Poi aggiunge: “Per esempio Harry Styles”, che mi piace, per carità, ma più a lei...».
Si sente sempre rappresentata dal suo nome d’arte? Si sente sempre Alexia?
«Sì. Me lo sono portato dietro per una vita, è il mio nome. Me lo ha dato il mio primo produttore e io non lo volevo, anche perché in nord Europa indica i cabinet medicali... per non parlare di tutto il caos da quando è arrivata Alexa... però sì, per me ora è il mio nome e me lo tengo».
Se le dico Sanremo? Ci tornerebbe?
«È un ricordo dolce, di momenti di grande felicità oltre che di presa di coscienza di quello che veramente valgo. Ci vorrei tornare, certo che vorrei, ma non si può suonare il campanello... le persone dimenticano in fretta e nel tempo ho capito che il Festival è anche uno spettacolo televisivo: come tale, deve fare molti ascolti, garantiti da certi nomi. Se non sei super popolare è difficile. Nonostante ciò, come molti altri colleghi senior, tutti gli anni io il tentativo lo faccio: sarebbe sbagliato precludersi questa cosa. Ma non è che ci punti più come un tempo».
Pensa di essere un po’ sottostimata?
«Forse sono esagerata ma penso che il mio vissuto sia tangibile e parli per me. Io mi sento una portatrice sana di allegria. Se ci sarà un riscatto sarà ben accetto ma sento che, in ogni caso, questo disco rappresenta un mio riscatto personale, quindi andrà bene anche se sarà uno dei tanti passaggi che ho fatto... certo, vorrebbe dire però che le persone sono proprio sorde».