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 2022  novembre 16 Mercoledì calendario

Anatomia dell’editoria italiana


Quello che fa l’immediato interesse di una storia confidenziale dell’editoria italiana è che ci viene raccontata da uno che la conosce bene per averci lavorato dentro per mezzo secolo, Gian Arturo Ferrari: studente prodigio al Collegio Ghislieri di Pavia, redattore a un dizionario biografico di Scienziati e Tecnologi il cui dominus era Ludovico Geymonat, poi braccio destro di Paolo Boringhieri dal 1973 al 1984. Nel frattempo si mette a insegnare Storia del pensiero scientifico a Pavia, e diventa per tutti “il Professore”. Editor della saggistica in Mondadori, dopo un anno ne è già direttore editoriale. Passa alla Rizzoli con l’amico Marco Polillo, poi nel 1988 torna a Segrate, dove per vent’anni diventerà il governatore della divisione libri e “dépendance annesse”, in quella che sarà la stagione dorata in cui il galeone di Segrate solcava maestosamente i mari di carta, tutto vele e cannoni.
Il confidenziale sta nel tono colloquiale, quasi una conversazione tra amici, in cui ci può scappare la battuta, l’aneddoto rivelatore, ma senza l’ansia dello scoop o il gusto un po’ malevolo del pettegolezzo. Il tono generale è improntato alla benevolenza, con alcuni giudizi tombali: la troppo ambiziosa Enciclopedia (1977-84), «la più arrogante e presuntuosa mai concepita, segna la fine dell’egemonia Einaudi». E con una puntata fuori porta sui generalissimi dell’editoria americana, ritratti dal vivo nei loro uffici di New York.
In copertina c’è, a sorpresa, un gruppo di pappagalli dall’aria garrula. È un modo di dire che l’editoria è anche un lavoro allegro e ciarliero, che mette insieme il selvatico e il domestico, il singolo e il gruppo, la gabbia e la necessità di superarla. Difatti la narrazione non ha la solita aria ingessata e compunta. Lo stile è semmai un po’ casual per meglio arrivare al cuore delle cose, a tante storie intrecciate e varie sliding doors, alle verità agrodolci. E cioè: l’editoria non è un salotto di spiriti eletti, ma il luogo dove il Dio della cultura e il Mammona dei bassi interessi commerciali sono costretti a convivere virtuosamente. Non ha niente di puro, è il suo destino e il suo fascino, ma coltiva un vivo senso dell’onore, la difesa del principio di libertà di stampa. La formula vincente è: argomenti bassi (cioè di interesse generale), trattazioni alte, cioè non convenzionali, nel segno della buona divulgazione. La qualità si trova all’interno di ogni genere, anche nell’intrattenimento: «Si può fare buona editoria con buoni libri amati dal pubblico e ignorati dall’intellighenzia». L’editoria è fatta anche di dettagli minimi, conta molto il publishing, e cioè come si confezionano e presentano i libri. Il controllo di gestione è importante, ma ancora di più lo è l’aura, il carisma che riesce a cucirsi addosso: un valore aggiunto che costituisce il 50% dell’impresa (vedi il caso Adelphi).
Una storia vissuta che è anche un memoir autobiografico, visto che l’autore vi compare a lungo e senza falsi pudori tra i protagonisti e sa sfruttare la vena narrativa già rivelata nel romanzo autobiografico Ragazzo italiano (Feltrinelli 2020), schizzando svelti ritratti. Vi si possono trovare illustri condottieri (tra i tanti, l’aristocratico Valentino Bompiani, Laterza, Einaudi, Leo Longanesi, Garzanti, Feltrinelli, Boringhieri, il duo adelphiano Foà e Calasso, Spagnol) e alcuni big dell’imprenditoria, che ne escono abbastanza bene (Carlo Caracciolo «nobile felino», un Carlo De Benedetti tranchant che va diritto al sodo, Silvio Berlusconi felpato e sornione, quasi intimidito da quella strana congrega che sono gli editoriali, Franco Tatò che gela i suoi dirigenti chiedendo a bruciapelo: com’è il suo cash flow?). Tra i meriti di Ferrari c’è anche quello di togliere dall’oblio un grande maestro in cui si riconosce, Luigi Rusca, la vera anima della Mondadori negli anni a cavallo della guerra (si inventa i “gialli”, la Medusa e gli Omnibus, pubblica Via col vento), poi fondatore della Bur, perfetto esemplare di manager colto. Sarà cancellato dall’iconografia standard Mondadori, tesa a glorificare Arnoldo.
Sullo sfondo usi, costumi e consumi dell’Italia del boom e degli anni di piombo, in un Amarcord appena intenerito. Come non commuoversi un po’ quando Ferrari evoca la nascita della Bur e degli Oscar, la sorpresa dei “Mille lire” di Stampa Alternativa (ricordate il successo milionario della Lettera sulla felicità di Epicuro?), l’improvvisa fioritura dei battaglieri piccoli editori sessantotteschi.
Si parte in zona Dickens con i ritratti di due proletari che avevano sì e no la quinta elementare, Arnoldo Mondadori, figlio di un ciabattino, e Angelo Rizzoli, l’orfano poverissimo allevato dai Martinitt. Si detestavano cordialmente: dapprima tipografi e stampatori, poi editori quando scoprono, dopo essere cresciuti con i periodici, che i libri – a saper sedurre gli autori giusti, tipo D’Annunzio – consentono rispettabili margini di guadagno. Ma intanto quante difficoltà nel reperire i capitali necessari, nell’adeguarsi alle sfide di una società in rapido mutamento. Alle spalle dei due sanguigni fondatori ci sono invece due facoltosi borghesi del tutto diversi, Treves e Sonzogno, che guardano alla Francia e sanno cogliere al volo le nuove esigenze di quel 2% di italiani che all’indomani dell’Unità d’Italia sapeva leggere (e poteva votare).
Nel bel mezzo della sua narrazione, Ferrari si ferma a riflettere su quello che sta alla base della vocazione di chi lavora in editoria, ad ogni livello: «l’intima certezza che tutto passa dai libri, il bene e il male, l’effimero e l’eterno. Una specie di immensa radiografia dell’umanità. Ma non statica, in continuo movimento, più un filmato che un’immagine fissa». Da un lato «la curiosità, indiscriminata e vorace, dall’altro la volontà ostetrica, minuta e paziente, il desiderio di portare alla luce, di far crescere». Dopo tante lezioni di pragmatismo e Realpolitik la vera anima di Gian Arturo Ferrari, quello che i suoi editor chiamavano «il più feroce degli erbivori», è più tenera di quello che ci ha fatto credere. —