la Repubblica, 16 novembre 2022
Un Pd femminista
Dallo scorso 25 settembre in poi si è prodotto un dibattito incessante sulle ragioni della sconfitta del Partito Democratico, una discussione che ha toccato molte questioni e che cerca di ipotizzare varie soluzioni. La maggior parte di queste riflessioni si esauriscono nel confine delle dinamiche interne, della forma partito da assumere e delle leadership future.
Una discussione che alle volte tracima in una sorta di colpevolizzazione fine a sé stessa, senza aggiungere o togliere nulla all’esistente. Quell’esistente però è il contemporaneo e le sue sfide, ed è quello di cui dovremmo ragionare.
Qualche giorno fa la Caritas ha presentato il suo rapporto sulla Campania che ha registrato che negli ultimi dieci anni 329 mila studenti hanno lasciato la regione per andare a lavorare al Nord. Questa emorragia di intelligenze è ancora più ampia se alla Campania si somma tutto il Mezzogiorno, ed è un indicatore prezioso di tutto quello che non ha funzionato negli ultimi anni.
La vocazione alla stabilità che per senso di responsabilità abbiamo assunto nel corso degli ultimi anni è divenuta una trappola, soprattutto nel Mezzogiorno, dove buona parte della popolazione ai margini ha scelto offerte politiche più immediatamente intellegibili, anche a rischio di ricaduta in una deriva populista che peraltro si era già sperimentata con scarsi risultati.
Abbiamo per troppo tempo lasciato l’iniziativa politica sul Mezzogiorno a forze che per ispirazione non rappresentano le spinte di cambiamento e di innovazione che pure esistono, abbandonando il campo della crescita, dello sviluppo e della modernità. Quando quel campo resta arido, non possono che emergere i peggiori vizi conservativi nazionali, che nel sud trovano maggiore spazio: protezionismo, assistenzialismo, assenza di cultura d’impresa e di mercato, rendita parassitaria, spesa pubblica improduttiva. I termini in cui si stanno preannunciando le scelte sull’autonomia non faranno che accentuare questi vecchi vizi, condannando questa parte del Paese ad un isolamento ancora più pronunciato. In poche parole, non abbiamo contribuito, o lo abbiamo fatto solo parzialmente, alla ridefinizione europea dei confini entro i quali la questione del divario territoriale può trovare adeguata dimensione. Le altre questioni che abbiamo di fronte sono figlie dello stesso limite. L’europeismo non è un servizio di argenteria da riporre in una teca e da mostrare agli ospiti all’occorrenza. O è la radice da cui cresce la pianta della nostra complessiva visione politica, gli occhiali attraverso cuiguardiamo la complessità del contemporaneo, la ricerca della soluzione di continuità alla crisi degli stati nazionali, e con essa la crisi della politica, o inutile farvi riferimento retorico. Questo non può riguardare solo le istituzioni ma deve rappresentare più in generale l’attività politica. L’asincronia con cui molti avanzamenti istituzionali si accompagnano ai ritardi delle forze politiche nazionali è uno dei problemi europei e di ciascun stato membro. E quindi anche dell’Italia. La prospettiva non pu ò che essere partiti transnazionali rappresentativi di istanze continentali e globali.
Il Partito Democratico deve trovare nuova funzione, oltre che visione, in questo cimento federale. Se il sogno è europeo, abbiamo bisogno di un grande partito che lo rappresenti, oltre i confini nazionali. Se molte delle scelte che riguardano la quotidianità, le opportunità e i bisogni di milioni di cittadini sono assunte dalle istituzioni europee, le formazioni politiche non possono restare rintanate nei confini di stati nazionali sempre più deboli e impotenti.
Ancora – sempre a proposito delle sfide dell’esistente – il femminismo da tempo viene, e a torto, raccontato come una battaglia di maniera, in cui molte di noi si intestardirebbero per un dato simbolico. La realtà è che proprio il femminismo è la chiave di interpretazione dei bisogni e del cambiamento necessario. Oggi come ieri è sulle donne che pesa il carico di cura quotidiano, la difficoltà nella conciliazione. Sulle donne pesano le violenze, i femminicidi, salari impari e organizzazione di una società dettata da equilibri maschili. Portiamo sulla nostra pelle le contraddizioni del tempo che viviamo e l’assenza della risoluzione delle controversie politiche e sociali. Un Partito davvero femminista non è solo un partito in cui le cariche sono distribuite equamente ma è un partito che diventa inflessibile nel pretendere che le pari opportunità non siano concessioni ma perno della costruzione di una società nuova.
C’è un mondo, che non è solo un elettorato, che cerca un posto sicuro in cui condividere le proprie istanze, che è alla ricerca di una dimensione in cui dare il proprio contributo; non servono contenitori nuovi, forum o riserve indiane, va iniziata, da domani mattina, una battaglia culturale e politica di sfida a un Governo che, già dalle prime mosse, sembra animato da una ispirazione sovranista antistorica.
Per tutto questo il ruolo di opposizione politica e sociale non deve essere vissuto come un purgatorio in attesa delle prossime elezioni, ma come un luogo dal quale contribuire alla costruzione di un Paese più equo, più giusto e più felice.