Corriere della Sera, 16 novembre 2022
Le orecchie di Beethoven
«Le mie orecchie ronzano e rombano di continuo giorno e notte. Posso proprio dire di condurre una vita da derelitto; da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non mi è possibile dire alla gente che sono sordo. Se esercitassi qualsiasi altra professione la cosa sarebbe più facile; ma con la mia professione questa è una condanna terribile!».
Era il 29 giugno 1801 e Ludwig van Beethoven aveva il morale basso: «Per darti un’idea di questa strana sordità, ti dirò che a teatro mi devo mettere proprio accanto all’orchestra per intendere gli attori. I toni acuti degli strumenti e dei cantanti, se sono un po’ più lontano, non li sento più – confidava in una lettera da Vienna al medico Franz Wegeler, amico dalla giovinezza a Bonn —. Nella conversazione è stupefacente che vi sia gente che non se ne sia mai accorta; data la mia fama di distratto, mi si ritiene per tale. Talvolta odo appena chi parla piano; percepisco i suoni ma non le parole; eppure mi è insopportabile se qualcuno grida. Che cosa accadrà, ora, lo sa il cielo».
Per il resto, sospirava, non poteva lamentarsi: «Le mie composizioni mi rendono parecchio, e posso dire di ricevere più commissioni di quante sia in grado di portare a termine. Inoltre, per ogni lavoro posso contare su sei o sette editori, o anche di più, se voglio; non discutono nemmeno più con me, io fisso un prezzo e quelli pagano. Se vedo un amico in difficoltà, e lo stato delle mie finanze non mi permette in quel momento di aiutarlo, basta che mi metta al tavolino a comporre, ed ecco che sono in grado di soccorrerlo. Vivo immerso nella mia musica e riesco appena a finire un pezzo che già ne inizio un altro. Al ritmo cui ora compongo, produco spesso tre o quattro opere contemporaneamente. Ma quel demone geloso, la mia pessima salute, mi ha messo un bastone fra le ruote».
Dolori lancinanti all’addome, coliche, malesseri, diarree... Un tormento. Affrontato seguendo quanto gli suggerivano i dottori. Medicamenti, pozioni, massaggi alle orecchie con tè e olio di mandorla, «i soliti bagni tiepidi nel Danubio»... Tutto inutile. Anno dopo anno, sempre peggio. Il testamento di Heiligenstadt e Quaderni di conversazione di Ludwig van Beethoven, tradotti e commentati per Einaudi dal musicologo Sandro Cappelletto, già autore tra l’altro d’una biografia del grande compositore e un’altra dedicata al celeberrimo Carlo Broschi (La voce perduta: vita di Farinelli, evirato cantore, casa editrice Edt), non sono solo la prima edizione completa in italiano delle principali testimonianze scritte lasciate dall’immenso autore dell’Inno alla gioia, ma la ricostruzione passo passo della sua immensa tragedia.
Perché sì, come spiegò nello Zibaldone Giacomo Leopardi (lui stesso pesantemente disabile) nella citazione che apre il volume, «le meravigliose facoltà che acquistano i sordi, i ciechi, o nati o divenuti, sono un’altra gran prova di quanto le nostre facoltà e quelle dei viventi derivino dalle circostanze e dall’assuefazione; e del quanto sia sviluppabile, modificabile, duttile, pieghevole, conformabile la natura umana» finendo per guadagnarci «nella profondità del pensare, nell’apprendere la musica ed esercitarla e comporne». Doti straordinarie tirate fuori, direbbe papa Francesco, dallo «scrigno in cui erano racchiuse», ma a prezzo di difficoltà, umiliazioni, dolori.
«Gli occhiali che portava per la miopia gli pendevano dal naso malfermi – scrisse Gerhard von Breuning, un medico, figlio di un amico d’infanzia di Beethoven —. Le tasche del cappotto erano sempre gravate poiché, a parte il fazzoletto che spesso pendeva da una parte, vi teneva un quaderno ripiegato per appunti musicali, in quarto, non proprio sottile, e un quaderno di conversazione, in ottavo, con una grossa matita da carpentiere, per poter comunicare con gli amici e i conoscenti che avesse incontrato, e, in tempi più lontani, finché gli poté esser d’aiuto, teneva in una tasca anche un cornetto acustico». Uno dei tanti provati e riprovati, prima di rassegnarsi ai dialoghi scritti, ottenendo scadenti risultati e dolorose infezioni all’orecchio. Fino a sperare, scrisse ancora all’amico Wegeler, negli studi dello scienziato bolognese Luigi Galvani che aveva studiato gli organi uditivi degli uccelli e la possibilità di curare la sordità attraverso la contrazione d’un muscolo stimolato dalla corrente elettrica: «Si dicono meraviglie del galvanismo, tu che ne pensi? Un medico mi diceva di avere visto a Berlino un ragazzo sordomuto riacquistare l’udito, e così pure un uomo che era sordo da sette anni»... Possibile? Mah...
Sogni proibiti, allora. Quello era il suo destino: la reclusione nel silenzio. La solitudine rotta solo da momenti di tregua, come dopo l’incontro con Giulietta Guicciardi, la diciassettenne alla quale aveva dato alcune lezioni di pianoforte nel 1801 e aveva dedicato la sonata Al chiaro di luna: «La mia vita è diventata ora più piacevole perché frequento di più la gente, non puoi immaginare il senso di vuoto e la tristezza che mi hanno accompagnato in questi ultimi due anni, la mia debolezza d’udito mi perseguitava ovunque come uno spettro e io fuggivo gli uomini; dovevo apparire misantropo, io che invece lo sono così poco, e questo mutamento lo ha prodotto una cara, incantevole ragazza, che mi ama e che io amo, in due anni sono questi i soli momenti beati ed è la prima volta che sento che il matrimonio potrebbe rendere felici, purtroppo essa non è del mio ceto sociale…». Lei era nobile, lui no. E invano, spiega Cappelletto, giocava sull’equivoco delle origini: «Il van del suo cognome non indica un titolo, come il von tedesco. Van, nelle Fiandre, terra d’origine della famiglia, significa semplicemente “da”: van Beethoven. “Coloro che vengono dai campi” – hoven – “di barbabietole” – beet. Nessuna nobiltà». Poteva pure esser il più grande musicista vivente: per i «sangue blu» restava sempre inferiore.
Prigioniero della sordità, dei pregiudizi nobiliari, dei dubbi d’essere destinato alla tubercolosi... Fino a sentirsi ronzare nella testa un’idea sulla quale sarebbe tornato più volte. E concentrata in quel Testamento di Heiligenstadt del 1802 indirizzato ai due fratelli Carl e Johan ma in realtà scritto per i posteri e ritrovato solo dopo la sua morte, venticinque anni più tardi. Ottocentonovantadue parole apparentemente buttate giù tutte d’un fiato, con quarantotto virgole, ventuno trattini e neppure un punto. Dove il genio così fragile e infelice confidava: «...per me non è possibile avere sollievo nella società degli uomini, né conversazioni elevate né reciproche rivelazioni, quasi del tutto solo, posso frequentare la società soltanto quando lo richiedono le necessita più impellenti, devo vivere come un esule, se mi avvicino a una compagnia mi prende un’angoscia terribile, perché ho paura di essere esposto al rischio di far conoscere la mia condizione – così è stato anche durante questi sei mesi che ho trascorso in campagna, seguendo il consiglio di risparmiare il più possibile il mio udito dato dal mio saggio medico, che è venuto incontro alla mia attuale naturale disposizione, sebbene talvolta mosso dal desiderio di compagnia mi sono indotto a frequentarla, ma quale umiliazione se qualcuno vicino a me sentiva il suono lontano di un flauto, e io non udivo nulla, o se qualcuno udiva cantare un pastore e ancora io non udivo nulla, questi fatti mi hanno portato alla disperazione, mancava poco che io stesso finissi i miei giorni – è stata solo lei, l’arte, a trattenermi, mi è sembrato impossibile lasciare il mondo prima di avere pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace, così ho prolungato questa miserabile vita...».