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 2022  novembre 16 Mercoledì calendario

Intervista a Nicola Alaimo

Nicola Alaimo il 18 canta per la prima volta alla Fenice, inaugurandola con l’ultimo capolavoro di Verdi.
Chi è per lei Falstaff, un compagno di vita, il suo alter ego?
«È un’amicizia che dura da sedici anni, quando, giovane incosciente, debuttai a Pisa. L’ho studiato diciotto mesi, lo sapevo come l’Ave Maria. Era la regia di Stefano Vizioli».
Quella in cui lei sembrava Elvis Presley?
«Esatto, basettoni e giacca di pelle. La sintonia col personaggio, che si canta quando hai raggiunto una certa maturità, fu immediata, come si fa a non amare un’opera così?».
Per Falstaff prova simpatia, compassione…
«Verdi ha saputo evocare ogni forma di sentimento, odio, amore, ironia, sarcas-mo, in fondo anche sesso, il cadere e rialzarsi, e poi la sua cultura. Fino alla solitudine del terzo atto, con la consapevolezza di essere diventato vecchio».
Quante volte l’ha cantato?
«Non sono di quelli che si conta le recite, ma sapendo di quest’incontro ci ho provato, siamo sulle cento recite».
Una volta apparve in scena travestito da gallo.
«Una delle produzioni che più ho nel cuore, firmata da Jean Louis Grinda. C’erano il gallo con le sue pollastrelle ma anche altri animali, il gatto e la volpe, il paggetto che era un pulcino».
E questo allestimento?
«È ambientato all’epoca di Shakespeare, Adrian Noble la conosce bene, vi ha improntato la sua carriera».
Gli Alaimo, una dinastia...
«L’ultima arrivata è Mary La Targia, figlia di mia sorella: fa i musical, è cicciottella, una cosa di famiglia. Poi Vincenzo che è stato corista alla Scala, è scomparso cinque anni fa; zio Simone, beh con lui continuano a scambiarmi ancora oggi, James Levine nel 2011 a New York mi abbracciò, caro Simone come stai. Sto bene, maestro».
L’hanno scambiata anche per il Carlo Colombara!
«A Salisburgo, una signora si è presentata all’uscita del Barbiere di Siviglia, quello con la regia di Villazon, con la foto del mio collega ed era tutta stizzita quando le ho detto che non ero io. Così mi ha declassato, facendomi firmare il programma di sala».
E lei?
«Non ho fatto una piega, va bene, glielo firmo lo stesso, le ho detto. È il nostro pazzo mondo della lirica».
Quando ci parlammo, nel 2013, lei pesava 140 chili.
«Dopo sono arrivato a 185. Ne ho persi 20, ora sono a 165. La paura di perdere voce se si dimagrisce è una leggenda metropolitana. Per salute dovrò scendere, ho 44 anni, sono ancora giovane ma cuore e ginocchia cominciano a fare le bizze. Ci sono i registi che ci valutano più per il peso che per la voce».
Le è costato dire dei no?
«A malincuore, ne ho detti: Macbeth a Marsiglia, il Tabarro all’Opera di Roma con Michele Mariotti sul podio. Se si nasce con Rossini, come me, si è più malleabili, permette un salto verso un altro repertorio, mentre chi viene dal verismo non può farlo».
Abbiamo letto che ha un sogno ricorrente.
«Ne ho due veramente, sono incubi più che altro. Ne parlavo stamane con Veronica Simeoni, che fa Meg Page nel Falstaff. Lei sogna cosa sogno io, entriamo sul palco e ci cambiano opera. Nell’altro incubo mi ritrovo sul cornicione di un grattacielo, nel vuoto, e resto impalato. Non so, forse è la paura di fare il passo più lungo della gamba».
Come si descrive?
«Sono lunatico, ipocondriaco, pieno di manìe, permaloso in famiglia, rivedo lo stesso film cento volte, soprattutto quelli con Aldo Fabrizi. Ai colleghi consiglio sempre Mi permette babbo!, con un gigantesco Alberto Sordi che fa un basso nullafacente che canta a spese del suocero, Fabrizi».
A chi deve dire grazie?
«Beh, con Muti ho cantato tanto e ogni volta è come andare all’università. Ho un episodio molto divertente. Otello a Salisburgo, 2008. Lui ha due cast e fa lavorare tutti in egual misura. C’è il tenore italoamericano Franco Farina che alla fine canta “un bacio, un bacio ancora”, prima del sospiro di morte, che gli viene male, fa una cosa che non c’entra niente. Muti si ferma: “Franco, che è ’sta cosa?”. Lui non sa cosa dire, la mette sull’ironia dicendo che se la stava facendo addosso. Non ho mai visto Muti ridere così tanto, dovette chiudere la prova».