Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 15 Martedì calendario

Così Mussolini trascinò l’Italia nel fascismo

Il 31 ottobre 1922 Mussolini era diventato, all’età di 39 anni, il più giovane presidente del Consiglio dall’Unità d’Italia e, alle ore 15 del 16 novembre 1922, si presentava alla Camera dei deputati per illustrare il programma e chiedere il voto di fiducia al suo primo governo di coalizione. Dell’esecutivo facevano parte tre ministri fascisti, due popolari, due democratici, un nazionalista, un demosociale, un liberale, un indipendente e due militari. Il capo del governo si era tenuto per sé due dei dicasteri più importanti: gli interni e, ad interim, gli esteri.
Quello che Mussolini tenne a Montecitorio quel giorno di cento anni fa sarebbe rimasto noto nella memoria collettiva della nazione come “il discorso del bivacco”. Dopo aver letto diligentemente l’elenco dei ministri (13) e dei sottosegretari (18), Mussolini iniziò il suo discorso con un autentico pugno allo stomaco agli equilibri tra gli organi dello stato. «Signori, quello che io compio oggi in quest’Aula è un atto di formale deferenza verso di voi – esordì il presidente del Consiglio – e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza»; rivendicando al tempo stesso il diritto a «difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle camicie nere». Perché non ci fossero equivoci sugli obiettivi che intendeva perseguire, affermò di essersi rifiutato di stravincere, mentre avrebbe potuto, forte, a suo dire, del sostegno di trecentomila giovani armati di tutto punto, castigare tutti coloro che avevano diffamato e tentato di infangare il fascismo.
E fu a questo punto del discorso che Mussolini pronunciò l’invettiva rimasta nei libri di storia: «Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli… potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
Nessun richiamo al rispetto delle prerogative parlamentari arrivò dal presidente della Camera, il liberale Enrico De Nicola, e l’unico deputato che interruppe sul punto l’oratore al grido «Viva il Parlamento! Viva il Parlamento» fu il socialista unitario Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello maggiore del famoso artista e scultore, Amedeo.
Mussolini non risparmiò dai suoi strali neppure gli esponenti e i partiti della sua stessa maggioranza, sottolineando come la scelta di costituire un Governo di coalizione non fosse stata dettata da esigenze di consenso parlamentare, ma unicamente dalla volontà di raccogliere «quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare». L’oratore poi si dilungò sulla politica estera e si innalzò a difensore dell’ordine e della legalità, fondamenta dello Stato fascista che avrebbe dimostrato la sua forza contro tutti, anche nei confronti dell’«eventuale illegalismo fascista».
Chiudendo un ideale cerchio di intimidazioni e minacce condite da richiami all’ordine, Mussolini, sul finire del suo intervento, chiese pieni poteri e dichiarò di non volere «fin che mi sarà possibile» governare contro la Camera, a condizione però che i deputati avessero compreso la particolare posizione che la rende «passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni». A ulteriore sfregio dell’autorità del Parlamento invitò i deputati a non gettare «altre chiacchiere vane alla Nazione, Cinquantadue inscritti a parlare sulle mie comunicazioni sono troppi». Alla fine, nel dibattito sulla fiducia, che proseguì anche il giorno dopo, gli interventi furono molti meno, una ventina circa, perché ad un certo punto fu votata dall’assemblea la chiusura anticipata della discussione.
Dagli scranni del gruppo fascista (35 deputati su di un totale di 535), Michele Terzaghi, dopo aver rivendicato con forza i risultati di «una rivoluzione extraparlamentare», lanciò alle opposizioni di sinistra il ramoscello d’ulivo di una proposta di amnistia, da lui definito un «atto di pacificazione definitiva».
Nel pomeriggio del 17 novembre 1922, si susseguirono gli interventi dei rappresentati degli altri gruppi parlamentari. Tra i primi, si iscrisse a parlare Filippo Turati, in rappresentanza degli ottanta deputati riformisti del Partito socialista unitario, che ingaggiò un autentico corpo a corpo dialettico con l’ex socialista massimalista, Mussolini, che a sua volta lo interruppe ben 37 volte in spregio di qualsivoglia forma di rispetto del regolamento della Camera e del bon ton istituzionale.
Cogliendo appieno il senso profondo dell’arrogante e irriverente discorso di Mussolini, Turati lo accusò di aver parlato «con il frustino in mano, come nel circo un domatore di belve», e al tempo stesso rimproverò la maggioranza dei suoi colleghi di essersi comportati come belve narcotizzate, pronte a ringraziare e plaudire a ogni nerbata. «Se il Parlamento fosse vivo – argomentò il leader riformista – avrebbe dovuto balzare spontanea da tutti i banchi e ad ogni modo (…). Oggi, da che la “nuova istoria” è cominciata, non è più il Governo che si presenta alla Camera, è la Camera che è chiamata a presentarsi al Governo e a dare essa l’esame per vedere se meriti, o no, di essere bocciata».
Per le opposizioni di sinistra, oltre al repubblicano Conti, intervennero Costantino Lazzari per i socialisti e Pietro Rabezzana, per i comunisti. Quest’ultimo, dopo aver accusato i colleghi deputati di vivere nell’«illusione democratica del parlamentarismo», si disse convinto che i fascisti fossero in realtà i «continuatori ed eredi legittimi, anche se apparenze sembrano dire il contrario, di tutta la tradizione politica della borghesia italiana».
Anche tra le fila della maggioranza il discorso di Mussolini suscitò molto sconcerto. Si rese interprete di questo disagio il presidente dei deputati popolari, Alcide De Gasperi. Il direttorio del gruppo parlamentare si era espresso a favore della fiducia per un solo voto (cinque a quattro) e contro l’opinione del fondatore del partito, don Luigi Sturzo. Nel suo intervento, De Gasperi, contestò apertamente Mussolini, difendendo l’onore e le prerogative della Camera da una «eco rivoluzionaria, un linguaggio che da questi banchi non può essere accolto». Nonostante stesse parlando uno degli esponenti di maggior spicco della sua maggioranza, Mussolini interruppe più volte l’oratore popolare, provocandolo apertamente quando quest’ultimo auspicò che non si volesse tornare a «Governi paterni e illuminati riducendo il Parlamento ad una funzione meramente consultiva». «Sarebbe già una gran funzione!» ironizzò per tutta risposta Mussolini.
La votazione per appello nominale sulla fiducia diede questo risultato: presenti 429; astenuti 7; votanti 422; maggioranza 212; hanno risposto sì 306; hanno risposto no 116.
Votarono a favore, tra gli altri, gli ex presidenti del Consiglio, Ivanoe Bonomi, Giovanni Giolitti, Antonio Salandra e Vittorio Emanuele Orlando, oltre al futuro sette volte presidente del Consiglio (De Gasperi) e al futuro presidente della Repubblica (Giovanni Gronchi).
Come disse Turati, dopo quel voto di fiducia cessò di esistere «ogni Parlamento eletto liberamente dagli italiani». Cento anni fa iniziava così la lunga notte del ventennio fascista.