la Repubblica, 15 novembre 2022
La Napoli di Marco D’Amore
C’è un uomo esageratamente anziano accecato da una luce in uno scrigno. L’ha aperto con le mani che tremano per l’età, per la fatica di una ricerca. Ha percorso i sentieri di tufo del sottosuolo, si è tuffato nel golfo, ha visto spiriti e fantasmi. Ha pure baciato una sirena, non una qualunque, Partenope, per capire da dove vengano miti e leggende della città. Marco D’Amore è stato al trucco sei ore, prima di girare la scena chiave del suo filmNapoli magica, nei sotterranei di Castel dell’Ovo, dove Virgilio nascose l’uovo su cui si posano l’edificio e la città, guai a romperlo, sarebbe una sciagura.
«È un progetto che mette in scena un fallimento – dice – l’impossibilità di raccontare Napoli nella sua pienezza. Come ogni città-mondo». Prodotto da Sky e Mad Entertainment, il film sarà fuori concorso al festival di Torino, in sala tre giorni dal 5 dicembre, con un linguaggio a metà tra documentario e finzione. È un viaggio nelle credenze di Napoli e dentro ciò che di Napoli si crede, nelle convinzioni dei vivi e nel culto dei morti, un’indagine su Storia e percezione, complessi di superiorità e inferiorità, sul misterioso bisogno di affetto e la necessità di piacere, sulla separazione tra élite e popolo, in un posto dove stanno insieme l’illuminismo di Vico e il corno rosso della superstizione. Ed è curioso che questo percorso nell’aldilà lo faccia il volto che inGomorra era l’Immortale.
«È il mio desiderio di conoscenza, una spinta che sento da ragazzino. Sono andato via a 18 anni, sono tornato a 30. Ho studiato a Milano, ho girato il mondo con la compagnia di Servillo. Mamma mi portava al Duomo, papà allo stadio. Sono le due passeggiate che mi hanno formato, ma il volto meno folkloristico di Napoli si conosce poco, anche in città. Pasolini ci chiamò una tribù che ha deciso di estinguersi, eppure esiste qui una spinta alla modernità e al progresso. Pazienza se mi sento contestare di non metteredistanza tra me e un’eredità artistica di cui non ho alcun merito, di essere troppo napoletano nel punto di vista politico».
Tra il cimitero delle Fontanelle, le catacombe di San Gaudioso e la cappella del Cristo Velato, il film è un atto di devozione. Eppure, D’Amore tradisce il piacere di camminare nei risvolti, sui sentieri dellaNapoli scientifica. Mette in scena l’afasia del popolo incapace di definire cosa siano magia e bellezza. Chiude con una sorpresa, uno sberleffo tra Collodi e Apuleio in cui pare invocare una moratoria, il silenzio dell’ignoranza su Napoli. C’è tanto studio dell’antropologia cittadina in dettagli, eccessi, scene comiche, omaggi a Totò e Peppino.
«Ho girato un film di stereotipi. Ogni scena ne presenta uno. Volevo raccontare il conflitto dei napoletani con essi». Non sfugge che la sirena gli chieda perché l’abbia abbandonata. «Il canto di Partenope – dice D’Amore – è inascoltato da chi la abita, e mi ci metto dentro. Per essere fuggito, per non aver ancora costruito qualcosa di concreto per la città, per la responsabilità che avverto di essere un piccolo rappresentante che parla a tanti». Ma a Partenope non sente di dover chiedere perdono per essere stato un volto della cartolina nera. «Sono un figlio di questa città, studio le cose che faccio. Quando ho accettatoGomorra – spiega – immaginavo le polemiche. Ma con Gomorra, la sirena mi è parso invece di ascoltarla, per accendere una luce su una realtà da cambiare. Mi rifiuto di addentrarmi in tribune politiche. Non mi interessa. Dico solo che gli ultimi 5 anni di Barbera a Venezia mostrano di quali visioni siano capaci gli artisti napoletani, partendo dall’elemento base della narrazione che è il conflitto. Napoli è unica per raccontare il mondo attraverso sé stessa». D’Amore è nato nel 1981, quando usciva Ricomincio da tre.Dice che il sogno di Troisi oggi è impossibile. «Impossibile che Napoli diventi normale, per il processo storico da cui nasce, per la sua biologia, la terra tellurica, la maniera furente di vivere le passioni. Una città quasi sudamericana, ma da cittadino sento di esigere normalità nell’eguagliare i diritti delle nostre periferie a quelle di altre città. Napoli al cinema per me è Rosi. Me lo fece conoscere una professoressa delle medie, Maria Perna. Considerava che i 13 anni non fossero l’età della stupidità, ma dell’apprendimento di realtà scomode. Oggi raccontiamo i ragazzi come morti viventi. Non sono così. La serata cinema la faccio con le miei nipoti. È l’eredità di tutte le Maria Perna che lavorano nascoste a Napoli».