la Repubblica, 15 novembre 2022
Giorgio Mangannelli raccontato dalla figlia Lietta
Più volte durante la lunga telefonata Lietta Manganelli ripete che lei e il padre si somigliano, «due gocce d’acqua». Per un paio d’ore fa riemergere come in un flusso di coscienza pezzi della loro storia, quella raccontata nel memoir Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare (La nave di Teseo). Una storia commovente, lacerata, intensa come può essere la relazione con uno scrittore geniale e nevrotico quando ti capita come padre. Oggi ricorre l’anniversario della nascita del Manga, nato a Milano il 15 novembre 1922, e Lietta lo festeggia con un libro che ne svela l’intricata matassa di «fragilità, inquietudini, giramenti di scatole, cose bellissime».
Il libro inizia con un anomalo Manganelli partigiano.
«Mostro i documenti della sua partecipazione alla Resistenza, della quale poco si sa perché mio padre come sempre camuffa la realtà. Nel rievocare la sua scampata fucilazione racconta di essere stato catturato per diserzione alla Repubblica di Salò. In realtà si era trattato di una rappresaglia contro un’azione partigiana durante la quale era stato ammazzato il comandante della brigata nera di Roccabianca Giovanni Gavazzoli. A salvare mio padre all’ultimo momento era stato il padre del morto che si era messo a gridare “L’è miga lù, l’è miga lù; lù l’è al profesor ad me fiòla”, non è lui, non è lui, è il professore di mia figlia. A quei tempi insegnava inglese».
Come mai non ne ha parlato?
«Forse perché detestava mostrarsi bravo agli occhi degli altri. Quando mi sono imbattuta nei documenti che testimoniavano il suo ruolo nella Resistenza non riuscivo a crederci. Ho fatto fatica ad ingoiarli. Una folgorazione. Se non avessi incontrato il vecchio Angelino Zilioli, un tempo staffetta partigiana, non avrei mai saputo la verità. Fino a quel momento avevo conosciuto mio padre come una persona che aveva paura anche dell’aria che respirava.
Si era sempre vantato della sua vigliaccheria».
Forse aveva solo trasformato la realtà in letteratura.
«In questo era un emiliano puro, nonostante fosse nato a Milano. L’emilianità è una cosa che ti si attacca addosso».
In che consiste?
«Nel considerare il verosimile più vero del vero e nel credere all’immaginazione. Gli emiliani sanno che quando la gamba della realtà non regge più, ci si può appoggiare alla gamba della fantasia. In questo mio padre era un dio.
Adorava quel bugiardo di Pinocchio ma non sopportava il finale della favola, dove il burattino diventa bambino. Ci raccontano che quella trasformazione è un premio, per il Manga era una punizione. Nei vari libri di Pinocchio che nel corso degli anni mi haregalato manca sempre l’ultima pagina. La strappava via, non voleva che la leggessi».
Come si fa a scrivere la biografia di una persona che confondeva falso e vero?
«Cercando di mettere insieme le sue infinite impossibili biografie. Mio padre era sempre un altro. Per ogni sua donna, per ogni suo amico, esisteva un Giorgio diverso. Uno per Alda Merini, uno per Viola Papetti, uno per Ebe Flamini, uno per Marianne Schneider. E per ciascuno aveva un ristorante. Non si sarebbe mai sognato di andare con Citati nello stesso ristorante in cui andava con Arbasino».
Nel libro il ricordo di Alda Merini è pieno di
tenerezza.
«Erano due persone problematiche ma si adoravano. Si erano conosciuti che Alda aveva 17 anni, lui 27. Alda è stata la prima persona al mondo che è riuscita a far sentire mio padre un dio. Sua madre lo riteneva un deficiente, mia madre un imbecille. Ho voluto un gran bene a Alda. Mi ha insegnato che amare è una cosa bella, che le emozioni non vanno nascoste. Mio padre faticava perché le emozioni lo soffocavano, ma era pieno d’amore».
Ce l’ha ancora con sua madre Fausta Chiaruttini per non averlo compreso?
«Non ce l’ho con lei, casomai mi fa pena. Avevaun uomo che l’adorava e l’ha buttato via. Aveva una figlia che avrebbe speso soldi falsi perché lei l’amasse e non c’è riuscita. Aveva sposato mio padre, laureato in scienze politiche, pensando di diventare la first lady di un diplomatico. Non aveva messo in conto di vivere con uno che aveva paura di tutto. Il giorno del matrimonio era svenuto per aver mangiato una bistecca al sangue. La delusione la obnubilava, non le faceva vedere quello che lui era davvero. Per lei era solo uno che scriveva cose insensate. Eppure mia madre è stata il suo grande amore. E la sua rovina. Ci capivamo per questo io e il Manga, perché entrambi conoscevamo quella mancanza originaria d’amore. Entrambi respinti. Io però non avrei desiderato un padre diverso, come sono sicura che lui non avrebbe voluto una figlia diversa. Per me lui era l’amore, anche quando non si presentava agli appuntamenti, anche quando non c’era».
Per tanti anni non vi siete visti. Che tipo di rapporto avevate?
«Era una persona complessa, aveva problemi nevrotici reali, era bipolare. A volte quando arrivavo a trovarlo mi allontanava, “vai via, ho gli scheletri nell’armadio”. Se era in fase down era difficile avvicinarlo. Ma anche quando si negava, faceva in modo di organizzare tutto perché io stessi bene: mi faceva trovare il mio pasto preferito pronto nel nostro ristorante o mi procurava una guida per vedere una mostra. Tutto come se ci fosse. Soffriva, lo ha salvato l’incontro con lo psicoanalista junghiano Ernst Bernhard. Il primo giorno che ci rincontrammo a Roma dopo tanti anni mi portò da lui. Che giornata! Poco prima mi aveva chiuso fuori dal balcone per non farmi assistere all’irruzione di Gadda. Era infuriato, sosteneva che l’Hilarotragoedia fosse una parodia del suo La cognizione del dolore».
Certo anche Bernhard era un atipico.
Maneggiava oroscopi e libri di letteratura, era molto manganelliano.
«Mio padre senza quel tessuto di parole, senza la muraglia cinese dei libri, sarebbe morto quarant’anni prima. Sosteneva che scrivere è un rito magico e che un libro non scritto ti cresce dentro come un umore marcio. Ecco perché sono affezionata a quella foto con il Manga vestito da soldato che tiene un libro in mano come fosse un moschetto».
Crescere in una famiglia del genere, quanto ha pesato?
«È stata tosta, sto scrivendo la mia biografia, sarà un viaggio catartico. Vorrei intitolarla Vita minima di una nota a margine. Attenzione però, senza note certi scritti non si capiscono!».
Con suo padre è in pace?
«Nella nostra ultima telefonata mi ha gridato: non dimenticarmi. È morto la mattina dopo. Io continuo a parlarci. È stato lui a insegnarmi che i morti non sono morti ma sono in stato attivo di morte. Sono tra noi, se non li vediamo è solo colpa nostra».