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 2022  novembre 15 Martedì calendario

Alicarnasso, una valorosa corsara

Nella storia antica c’è una figura del tutto anomala che stranamente non ha mai ispirato nessun poeta, romanziere o compositore musicale. Vive ai tempi delle guerre persiane. È una donna, Artemisia, sovrana di Alicarnasso (oggi Bodrum, Turchia). Una donna destinata, oltretutto, ad essere ricordata per le sue doti di esperta navigatrice. Premessa: Erodoto – anch’egli nato ad Alicarnasso – racconta che ad Artemisia, per volontà del Gran Re dei persiani Dario – in una data anteriore al 486 a.C. (cioè in uno degli anni antecedenti alla morte dello stesso Dario) – viene concesso di sottomettere Cos nonché le isole filelleniche Nisiro e Calimno. Cadmo, tiranno di Cos, è da lei umiliato e costretto a riparare in Sicilia alla corte di Gelone di Siracusa.
Nel 480 a.C. poi Artemisia prenderà parte, come alleata dei Persiani, ad una delle battaglie più celebri dell’antichità, quella di Salamina al fianco, appunto, di Serse. Il quale Serse, sconfitto, riconoscerà al cospetto dei propri generali che Artemisia aveva avuto ragione a sconsigliargli di impegnarsi militarmente in quell’impresa. E, in aggiunta al pubblico elogio, Serse le affiderà il compito di riportare in patria i suoi figli. Cose inaudite nel V secolo avanti Cristo. A lei è adesso meritoriamente dedicato un importante libro di Lorenzo Braccesi, Artemisia. La regina corsara, che esce venerdì 18 novembre per i tipi della Salerno.
Di Artemisia sappiamo che era figlia di Ligdami, tiranno di Alicarnasso e di una cretese. Sappiamo altresì che, alla morte del padre (e del marito di cui non è stato tramandato nulla, nemmeno il nome), assunse la reggenza della città in nome del figlio ancora adolescente. Una governante, dunque, «di stirpe ellenica» posta sotto la «sovrannazionale sovranità persiana».
Può essere definita una «tiranna». Ma, avverte Braccesi, il termine «tirannide» non ha, nella sua definizione arcaica, «quella nota dispregiativa con la quale è bollata tanto nella tradizione antica quanto in quella moderna». Non è l’equivalente di «dispotica». Il «tiranno» dell’epoca in cui vissero Ligdami e Artemisia è un «capoparte rivoluzionario» che «con l’adesione del popolo si impadronisce a forza del potere presentandosi nell’agone cittadino come il difensore tanto degli interessi della nuova borghesia mercantile quanto delle vecchie comunità contadine sempre più stritolate dalla concentrazione del latifondo». In un secondo tempo, i ceti che hanno tratto profitto dall’opera di questi loro capi si adopereranno per lo smantellamento della tirannide. Tirannide «che, il più delle volte, alla sua terza generazione, esaurisce la sua funzione storica degenerando in forza statica intenta soltanto alla conservazione e alla propria sopravvivenza».
Artemisia è dunque figlia di un tiranno «rivoluzionario» e, dopo la morte del padre nonché del marito, diventa a sua volta tiranna in quanto vedova e madre. Può essere considerata «l’esponente di spicco di una serie di vedove di potere – con Tamiri, Semiramide e Zenobia – di fatto più diffusa in Oriente anziché in Occidente». Ma è «una personalità di spicco difficilmente classificabile a causa dell’ambivalenza esistenziale che la rende espressione vivente di notevoli contraddizioni culturali». Nel senso che «è donna ma esercita con successo un potere maschile, si compiace di abbracciare il mestiere delle armi e per giunta esercitando, come fosse una corsara, la guerra sul mare». Da sottolineare poi che «come vassalla del Gran Re di Persia guida in proprio la sua piccola flotta nella giornata di Salamina distinguendosi per coraggio e virile ardimento, seppure il suo sesso la dispensasse dal partecipare alla spedizione contro la lega panellenica».
La tradizione storica vuole che premessa delle guerre persiane sia stata l’insurrezione delle città greche della Ionia contro Dario «nel nome della libertà». Braccesi non è d’accordo. Chi combatte contro i Persiani a Mileto, Maratona, alle Termopili o a Salamina, sceglie un destino di possibile morte non per «un ideale panellenico di libertà» (come «sarà nell’oratoria e nella tradizione patriottarda di epoche successive»). Vuole soltanto evitare «la schiavitù». La quale, per gli sconfitti, avrebbe comportato il «trasferimento in catene nel cuore dell’impero persiano». Ed è da presumere poi che la cobelligeranza al fianco dei Persiani da parte di Ligdami prima e di Artemisia poi sia stata determinata da una loro «valutazione negativa dell’insurrezione ionica». Non erano «asserviti alla Persia», né «nemici della libertà». Questo può spiegare, almeno in parte, perché Erodoto scelga di offrire «alla compatriota Artemisia che milita nelle schiere del barbaro una connotazione in parziale distonia dalla vulgata sulle guerre persiane».
Scrive Erodoto a proposito della battaglia di Salamina: «Degli altri comandanti non faccio menzione, ma soltanto di Artemisia… moltissimo l’ammiro per aver partecipato, pur essendo donna, alla spedizione contro la Grecia». La ammira perché fu lei a fornire «le navi più attrezzate di tutta la flotta e di tutti gli alleati». E perché «fu lei che dette al re i consigli migliori». In che senso? Perché, alla vigilia di Salamina, parlò come donna libera nell’assemblea presieduta da Mardonio, cugino di Serse. Il re di Persia aveva radunato i più importanti condottieri della sua armata per deliberare se e come affrontare la flotta greca nelle acque di Salamina. E in quell’occasione Artemisia, dissentendo dagli astanti, sconsigliò quel genere di scontro. Disse apertamente al re: «Risparmia le navi, non combattere sul mare».
I più si aspettavano che Serse l’avrebbe travolta con la propria ira. Invece, scrive Erodoto, il re «si compiacque grandemente del consiglio di Artemisia e, se già prima la giudicava persona di valore, a quel punto la apprezzò molto di più». Tuttavia «comandò di seguire il consiglio della maggioranza, pensando che i marinai della flotta si fossero comportati da vili in Eubea (un precedente scontro navale, ndr) perché lui non era presente». Stavolta le cose sarebbero andate diversamente perché lui «si apprestava ad assistere di persona alla battaglia». Battaglia che invece si concluderà tragicamente per i Persiani. Ma Artemisia, pur come s’è detto «figura anomala», ottiene qualcosa di sorprendente: il «plateale encomio verbale del Gran Re, inaspettatamente sconfitto». E successivamente addirittura le lodi di Erodoto il quale, nonostante si tratti di una dichiarata nemica della grecità, la descrive come una persona molto intelligente oltre che un’eroica signora della guerra.
Racconta a tal proposito negli Stratagemmi Polieno – teorico militare macedone vissuto nel II secolo d.C. al tempo degli imperatori romani Antonini – che Artemisia, una volta al comando di una nave da guerra, «teneva con sé non solo le insegne dei barbari, ma anche quelle dei Greci». Quando era lei che andava all’inseguimento di una nave greca, issava «il vessillo dei barbari». Allorché invece era inseguita da un’imbarcazione greca, alzava le insegne dei Greci «sicché gli inseguitori desistessero dal darle la caccia considerando la sua una nave ellenica».
Quanto alle insegne delle flotte in combattimento, specifica Braccesi, «non dobbiamo pensare a moderni stendardi, bensì ad altri distintivi lignei apposti sulle prore». Ovviamente, per poter ricorrere a questi trucchi, Artemisia, prosegue Braccesi, doveva manovrare con imbarcazioni agili e, all’occorrenza, superveloci. Per cui non stupisce che Erodoto «ascriva alla sua modesta flottiglia il merito di esser composta dalle navi migliori fornite dall’armata del Gran Re, seconde solo a quelle della fenicia Sidone». Si trattava di cinque triremi, imbarcazioni leggere di invenzione corinzia, che «si giovavano della propulsione di tre file di rematori», in aggiunta «alla consueta e poco maneggevole vela rettangolare». Navi non comuni. Del primo costruttore di questo genere di navi, il corinzio Arminocle, Tucidide in forma insolita cita il nome quasi a voler sottolineare l’importanza della sua innovazione tecnica nella cantieristica navale.
Ma la furbizia di Artemisia non è solo quella di issare vessilli diversi a seconda delle navi con cui deve scontrarsi. C’è un episodio specifico che attira l’attenzione di Serse ed è quando la corsara di Alicarnasso, per depistare i Greci, affonda la nave dell’alleato Calimno. Serse in un primo momento pensa che Artemisia stia speronando una nave nemica. Poi il re di Persia ha modo di conoscere la verità dei fatti e si limita a dire: «Gli uomini mi sono diventati donne e le donne uomini». Erodoto si sofferma sullo stratagemma. E plaude.
Anche Paola Angeli Bernardini, in Donne e dee nel Mediterraneo antico (il Mulino), mette in risalto l’«ammirazione» di Erodoto nei confronti di Artemisia. Angeli Bernardini ricorda che ci fu un’altra donna dell’antichità che si distinse per perizia nella navigazione: l’egiziana Arsinoe II, figlia di Berenice I e moglie del proprio fratello Tolomeo II Filadelfo. Arsinoe II – vissuta tra il 316 e il 270 a. C. – può essere considerata «la creatrice di una navarchia generale, una flotta di guerra permanente» affidata al suo protetto Callicrate di Samo. Esistono diverse dediche di epoca tolemaica che celebrano lo stretto legame tra Arsinoe II e Iside «protettrice della navigazione e dea venerata in tutto il Mediterraneo per il suo potere sulle acque marine». Successivamente ci saranno altre regine, soprattutto ellenistiche che armarono a proprie spese una flotta. Nella stirpe reale macedone si distinguerà Teuta (ne parla Polibio nelle Storie), sovrana dell’Illiria. Teuta è vedova del re Agrone, guiderà truppe mercenarie e provocherà l’intervento romano lungo le coste dalmate. Verrà sconfitta dai romani e si suiciderà nel 228 a. C.
Ma Artemisia è forse la più importante. Anche se sarà colpita da una sorta di leggenda nera. Una tradizione denigratoria che Braccesi è «tentato di dire» sia «figlia del suo anomalo mestiere delle armi, da sempre di esclusiva nonché orgogliosa pertinenza maschile». Ammiano Marcellino nel IV secolo d.C. arriverà a paragonarla – assieme a Semiramide, Cleopatra e Zenobia – ad una «meretrice», una «prostituta della plebe cittadina», una «vecchia lupa». Se ne arguisce che la signora di Alicarnasso è stata dannata per secoli da «una lunga scia diffamatoria». Accuse infamanti in «totale distonia dalla caratterizzazione di Erodoto». Il quale – ripetiamolo – «seppure si tratti di una dichiarata nemica della grecità», la connota «in forma eroica come un’ardimentosa signora della guerra». Braccesi ipotizza che la tradizione denigratoria si possa far risalire agli abitanti di Cos e delle isole limitrofe. Si tratterebbe di una vendetta contro la «traditrice degli ideali filelleni» (i loro). La quale per giunta, dopo averli umiliati militarmente per ben due volte, li aveva sottomessi.
Dopodiché, scrive Braccesi, «il dispotismo persiano, anche in virtù della vittoria di Salamina, si arricchisce nel tempo di connotazioni negative che esaltano e propagandano fino ai nostri giorni l’opposizione tra l’Occidente e l’Oriente accentuandone le differenze culturali, sociali e religiose». In «questa temperie, lunga due millenni, non ha proprio spazio la storia di Artemisia, la cui memoria anche nella disimpegnata cornice esoticheggiante di opere letterarie, teatrali e musicali, doveva essere annullata perché troppo controcorrente rispetto al conformismo politico e alla morale benpensante». O forse perché sarebbe stato impossibile parlare della signora di Alicarnasso senza essere costretti a mettere in risalto il giudizio positivo che ne diede Erodoto.
Trasformate le guerre persiane in un «mito continuamente sfruttato fino all’età moderna in funzione di tutte le lotte di libertà», scrive Braccesi, «la pagina erodotea, perché sorda alle loro istanze, non è più stata compresa nella sua reale essenza». E «ha infastidito gli esegeti che più non trovavano rispondenza con ciò che si erano proposti di ritrovarci, cioè con il loro immaginario». Ecco perché gli storici si sono sentiti costretti a dimenticare Artemisia.