Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 14 Lunedì calendario

Cultura al bando

E, dunque, la domanda è: possiamo continuare a leggere Ovidio senza un alert? E la «libertà di espressione» (oggi tanto invocata a giustificazione dell’autocomunicazione di massa) vale anche – retrodatata – per i libri e i pensieri che hanno stratificato il canone culturale dell’Occidente senza dover obbligatoriamente apporre l’avviso che i contenuti delle Metamorfosi possono urtare i lettori (come proposto sul New Yorker)? Scriveva ieri su queste pagine Andrea Marcolongo che le critiche di tipo woke ai classici possono – per contrasto – sortire un effetto rivitalizzante. Ma rischiano pure – per usare di proposito uno slogan censurabile – di «gettare il bambino con l’acqua sporca».
La cancel culture (o call-out culture, «cultura del richiamo») rappresenta una nebulosa e un arcipelago che prevede, in linea di principio, non unicamente di boicottare un’opera dell’ingegno, ma di vietarne o impedirne la fruizione collettiva – arrivando, così, all’ostracismo e al bando e, giustappunto, alla cancellazione (un approccio all’antitesi della discussione).
L’idea di un «semaforo rosso» da applicare agli autori della classicità greco-latina non è che l’ultima manifestazione di un dibattito, intriso di volontà di censura per un verso, e di propensione allo «Stato etico» per l’altro, che finisce per indebolire le giuste motivazioni che varie minoranze invocano, chiedendo un risarcimento per i torti subiti, perché assume delle forme palesemente illiberali e distruttive (e, quindi, antidemocratiche anche nel campo delle politiche educative e delle scelte culturali). L’ennesimo segnale di una società statunitense frammentata e divisa, nella quale monta da parte dei soggetti che si sentono discriminati la spinta a mettere sotto tutela «i propri» (una delle derive di un certo neocomunitarismo anglosassone), come se le persone non fossero in grado di comprendere da sole e formulare dei giudizi in maniera autonoma. E va pure specificato che una sovrapposizione meccanica tra la cultura della cancellazione e il politicamente corretto risulta politicamente (e filologicamente) scorretta, in primis, poiché si tratta di due dispositivi non coincidenti (l’uno sanzionatorio e fattivo, e l’altro fondamentalmente linguistico).
Del resto, a firmare la lettera aperta del luglio 2020 su Harper’s Magazine, che denunciava il portato di «conformismo ideologico» della cancel culture, era un elenco molto ampio e pluralistico di intellettuali, che vedeva affiancati – tra gli altri – Noam Chomsky, J.K. Rowling, Salman Rushdie, Margaret Atwood e Francis Fukuyama. Ed è stato lo stesso Barack Obama a mettere in guardia a più riprese dall’estremismo woke della «purezza», aggiungendo che la call-out culture «non è attivismo, e non genera cambiamento».
Riguardo i testi classici incriminati, per giunta, non si sta facendo riferimento a dei (sacrosanti) diritti individuali o di gruppo minacciati dai loro contenuti, ma alle parole – al medesimo tempo antiche e immortali – di libri che vanno letti non superficialmente e analizzati anche criticamente. Con i quali, spesso, si entra a contatto per la prima volta grazie a docenti e maestri che accompagnano il lettore nella loro esegesi, all’interno di una cornice e di un framework interpretativi che non rinviano all’opinione e alla soggettività del singolo, ma a un apparato scientifico e di conoscenze organizzate e strutturate. E qui sta uno dei nodi fondamentali sottesi alla questione: la cancel culture non nasce sic et simpliciter con il movimento di Black Lives Matter, ma costituisce un prodotto esemplare del postmodernismo. Al pari, su un versante contrapposto – e a conferma del processo di destrutturazione della razionalità moderna e illuministica –, della fioritura di dottrine cospirative e complottistiche che gonfiano le vele delle destre neopopuliste e della «Putinsfera».
Il terreno, qui, si presenta un po’ scivoloso, ma un numero crescente di intellettuali ravvisa la sua genealogia, alimentata dagli studi culturali, postcoloniali e queer, nell’eredità rivista (o, in taluni casi, semplicemente trasposta) dei campioni del post-strutturalismo parigino e della French Theory degli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, da Michel Foucault a Jean-François Lyotard, da Jean Baudrillard a Jacques Derrida. Responsabili, nel complesso di un imponente (e problematico) lascito culturale edificato sull’assenza di verità oggettive, l’idea della conoscenza quale costruzione sociale stabilita dai detentori di turno (o di lungo corso) del potere e quella dei saperi come pratiche discorsive.
Così, la cancel culture, analogamente alle altre espressioni del postmodernismo, si caratterizza per un mancato senso della storia e della profondità del passato. È avvolta nel puro presentismo, che tutto schiaccia sulla comparazione istantanea con lo stato attuale delle cose e dei modi di vedere. Non a caso, suscettibilità e indignazione subitanee, ancor prima che sensibilità meditate.
Ma Ovidio, Cicerone, Dante e Shakespeare non sono uomini degli Anni Duemila ed è un’evidente forzatura considerarli dei «maschi bianchi misogini», a meno di integrare l’imputazione con la considerazione doverosa che essa vale per tutti i loro contemporanei. Nella cancellazione della prospettiva storica e temporale salta ogni possibilità di contestualizzazione e si entra nel regno orizzontalizzato (e presentista) del giudizio soggettivo su tutto. La cancel culture produce rimozione e smemoratezza acritiche, e finisce per non rendere affatto un buon servizio alle finalità di giustizia sociale e promozione dei diritti che persegue – e che, vien da aggiungere, trovano una maggiore resa ed efficacia nel liberalismo (all’americana).
La storia non è un «pranzo di gala» (e «non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo»), come diceva della rivoluzione Mao Zedong – uno che, peraltro, di cancellazione coatta delle culture dissenzienti aveva una certa (e proterva) esperienza. E soltanto questa consapevolezza, insieme al realismo, consente di agire al meglio per una giusta causa. —