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 2022  novembre 14 Lunedì calendario

Quando eravamo tutti uguali

Non credere di essere speciale. Non credere di valere quanto noi. Non convincerti di essere migliore di noi. Non credere di essere più importante di noi. Non credere di essere bravo a fare qualcosa. Non credere che a qualcuno importi di te.Sono sei dei dieci comandamenti che compongono la Legge di Jante, un concetto formulato dallo scrittore dano-norvegese Aksel Sandemose nel suo romanzo del 1933, Un fuggitivo incrocia le sue tracce. La Legge descriveva la mentalità di una comunità in cui tutti controllano tutti, il collettivo soffoca l’individuo e il prezzo da pagare per la libertà personale è l’ostracismo – ma valeva anche al di fuori dei confini del piccolo villaggio immaginario di Jante. L’atteggiamento osservato da Sandemose riguardava l’intera cultura scandinava ed era ancora intatto quand’ero bambino io, negli anni settanta. “Non credere di essere migliore degli altri”, è il ritornello che ha accompagnato tutta la mia infanzia, e bastava un cappello un po’ bizzarro o un paio di pantaloni strani perché la gente ti rimproverasse, ridesse di te o, nel peggiore dei casi, ti ignorasse. Così quando sulle reti televisive norvegesi fu trasmessa la serie americana Saranno famosi, all’inizio degli anni ottanta, sembrò una cosa dell’altro mondo. Tutti i personaggi sullo schermo si credevano speciali – era quello il tema della serie! – e non mancavano certo cappelli bizzarri e pantaloni strani. Che cosa volevano questi ragazzi? Volevano diventare famosi. Perché volevano una cosa del genere? È una domanda stupida. La fama porta ricchezza, e la ricchezza porta potere e una vita in cui si spalancano tutte le porte, anche ai piaceri e alle attività più dissolute. Piuttosto vale la pena chiedersi: per quale motivo al mondo una persona dovrebbe dire di no a tutto questo? O, più precisamente, perché nella Norvegia degli anni settanta la fama era vista come qualcosa di volgare, di inaccettabile, in sostanza di immorale? Ovviamente c’erano dei personaggi famosi, cantanti e atleti che erano amati da tutti, e poi c’era la famiglia reale. Ma ciò che li accomunava era il loro insistere sul fatto di essere come tutti gli altri. Erano persone modeste, umili, mai piene di sé o arroganti. Ci tenevano a sottolineare quanto fossero ordinarie. L’immagine più iconica di re Olav V non è quella della sua incoronazione, circondato da tutto lo sfarzo e il cerimoniale della regalità, ma quella che lo ritrae durante la crisi petrolifera del 1973, seduto su un tram in giacca a vento, mentre mostra il biglietto al conducente come un cittadino qualunque. Re Olav fu molto amato per quella fotografia, e lo è tuttora. “Il re del popolo”, lo chiamano. Durante gli anni ottanta e novanta, questa situazione cambiò. La Legge di Jante ricevette una sepoltura formale e, poco prima delle Olimpiadi di Lillehammer del 1994, il primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland pronunciò la frase memorabile: “È tipicamente norvegese essere bravi”. Se i festeggiamenti di fine anno alla mia scuola erano caratterizzati da inni e solennità, quelli delle mie figlie ricordano più che altro dei provini per Idol. La Legge di Jante racchiudeva in sé anche un ideale di solidarietà. Nel modello sociale scandinavo, come ha preso forma negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, l’etica protestante – lavora duro, sii frugale, non mettere i tuoi interessi davanti a quelli degli altri – si univa al concetto del movimento operaio che essere “uno di noi” era più importante che essere qualcuno di speciale. Il risultato in Norvegia è stato assistenza sanitaria e istruzione per tutti, tv e radio pubbliche, linee ferroviarie e telecomunicazioni statali, sovvenzioni per gli alloggi e l’agricoltura, e la convinzione diffusa che nessuno fosse migliore di nessun altro. A scuola, gli studenti non venivano valutati prima dei 13 anni. Tutti, specialmente i bambini, dovevano essere trattati allo stesso modo. Eppure, o forse proprio per questo motivo, io la notte non dormivo, circondato dagli anni settanta ovunque mi voltassi, e sognavo di diventare famoso. Uno scienziato famoso, un calciatore famoso, un musicista rock famoso, un pittore famoso, uno scrittore famoso. Famoso, famoso, famoso: era l’unico modo che avevo per diventare qualcuno. Si tratta di emozioni forti. Se non affonda le radici nel sé, l’identità viene stabilita da fattori esterni che possono finire col diventare forze decisive e dominanti. Il desiderio di essere famosi è innanzitutto e forse nient’altro che un desiderio infantile. Per la maggior parte delle persone, trovare dei modi per gestirlo – per mettere i bisogni degli altri davanti ai propri – fa parte del processo di diventare adulti. Per pochissime persone, resta ingestibile.
Nel 2016, è uscito un libro sul pluriomicida Anders Behring Breivik, scritto da Åsne Seierstad. Breivik è l’uomo che oltre undici anni fa ha sterminato decine di ragazzi sull’isola di Utøya, vicino a Oslo. Il titolo del libro è Uno di noi, perché sotto molti punti di vista Breivik sembrava assolutamente ordinario: un giovane del ceto medio cresciuto in uno stato sociale alla periferia dell’Europa. L’aspetto più interessante dello studio di Seierstad è la sua descrizione del percorso di Breivik verso l’estremismo e il terrorismo: il modo in cui Breivik vorrebbe sempre essere visto, ma continua a essere ignorato, snobbato, trascurato; come si isola sempre più fino a chiudersi in una stanza davanti a uno schermo a giocare ininterrottamente a World of Warcraft per un anno intero. Non è nessuno, ed essere nessuno vuol dire essere morto, e quando sei morto sei al di sopra di tutto e di tutti. Non hai nulla da perdere, tutto è possibile. Breivik ha ucciso 77 persone quel giorno perché voleva essere visto. Non importava come veniva visto. Lui stesso si considerava un eroe, un liberatore, il prescelto. La strage di Utøya sarebbe stata impensabile nella Norvegia degli anni cinquanta. È figlia del nostro tempo. Gli appartiene, il che è ironico se si considera che Breivik idealizzava la società degli anni cinquanta e voleva ripristinarla. C’è una bella differenza tra Breivik e vedere i propri figli in piedi davanti allo specchio che cantano e sognano di andare in televisione. Essere visti è di vitale importanza, ma il bisogno di essere visti da tutti, che è una fantasia infantile, diventa un’anomalia quando persiste nell’età adulta. Significa che c’è qualcosa di sbilanciato. È evidente, dal momento che l’armonia non crea nulla. Non ne ha bisogno. Sono il disequilibrio e la disarmonia a generare la forza che spinge un ultrasessantenne a salire su un palco a cantare e suonare la chitarra per ore ogni sera, in un paese dopo l’altro, tra gli applausi del pubblico. «Disprezzo verso me stesso», l’ha chiamato Bruce Springsteen in un’intervista al New Yorker. Non credo che valga solo per lui. Il disprezzo verso di sé è il motore, la fama è il carburante.
Quanto a me, ho coltivato il sogno del successo per tutta la mia adolescenza. Giunto ai vent’anni, volevo diventare uno scrittore famoso. Non importava come: potevo scrivere qualsiasi cosa pur di arrivarci. In un’intervista terribilmente imbarazzante che mi hanno fatto per la radio studentesca mentre seguivo un corso di scrittura creativa attorno ai vent’anni, mi paragonavo in tutta serietà ad Hamsun ed Hemingway. Diversi anni fa ho pubblicato un libro che ha fatto scalpore in Norvegia. All’improvviso, la mia faccia era sulla prima pagina di tutti i giornali e venivo invitato a tutti i talk show. Essendo cresciuto negli anni settanta, con l’ammonimento a non pensare di aver nulla di speciale nel mio dna, ho reagito a tutta quella celebrità con vergogna e disperazione, diventandone allo stesso tempo dipendente quasi come un tossico. Provo ancora un tale senso di vergogna che quasi non riesco a parlare di quel che è successo perché parlandone è come se dicessi: Sono qualcuno, guardatemi! Ma è esattamente quello che penso. Sono qualcuno, guardatemi. E allo stesso tempo qualcos’altro mi dice l’esatto opposto: Non sei nessuno. Chi ti credi di essere? Ed è un buon pensiero. È un pensiero che mi tengo stretto non perché sono un masochista, ma perché sono realista. Ed è l’unica cosa che mi permette di continuare a scrivere.