La Lettura, 13 novembre 2022
Su "La stella del mattino" di Karl Ove Knausgård (Feltrinelli)
Ogni volta che inizio a leggere un libro di Karl Ove Knausgård — bastano poche pagine — mi viene in mente una memorabile recensione di Susan Sontag a Vertigo di W. G. Sebald, pubblicata sul «Times Literary Supplement» nel febbraio del 2000. Non perché veda (a parte un’inclinazione decisamente malinconica del carattere di entrambi) grandi affinità tra lo scrittore tedesco e il norvegese, né dal punto di vista della forma narrativa né da quello della loro concezione dell’umano. Più semplicemente, nel momento in cui scoprì la bellezza della prosa di Sebald, Susan Sontag ne fu sorpresa, come ogni volta che ci si imbatte in un’autentica grandezza letteraria (literary greatness) attribuibile a un contemporaneo, e non a un classico stagionato nelle botti del tempo. Perché il tempo finisce sempre, da buon galantuomo, per selezionare. Mentre vivere nel presente rende addirittura avventuroso percepire quella grandezza, sommersi come siamo da un flusso di parole scritte inutilmente, di prodotti narrativi caratterizzati, secondo la grande critica americana, da tiepidità, sciatteria formale, crudeltà insensata. Aggiungerei alla diagnosi il sentimentalismo, eterno alleato della brutalità.
Ebbene, Knausgård è uno di quei caratteri artistici che sembrano addirittura inattuali, o se si preferisce fuori tempo massimo, tanto vola alto, tanto scende nel profondo. È ormai inconfondibile il suo stile analitico, da attento erborista dell’esistente, capace di intarsiare per centinaia di pagine un dettaglio all’altro, oscillando fra l’interno e l’esterno, l’emozione soggettiva e le innumerevoli forme del mondo.
Nato nel 1968, lo scrittore norvegese ha verosimilmente un buon tratto di strada davanti a sé; ma è anche vero che i suoi cicli autobiografici, ovvero i sei volumi intitolati La mia battaglia (2009-2011) e i successivi quattro dell’ «enciclopedia delle stagioni» (2015-2016), sono dilagati a macchia d’olio tra i lettori di tutto il mondo finendo per diventare, se mi si passa l’ossimoro, dei «classici contemporanei», dotati di un’autorevolezza stilistica e di una forza di suggestione psicologica non facili da definire. In parte, sicuramente, questa efficacia è dovuta al rigore, di sapore quasi luterano, della confessione. Quest’inclinazione, a dire tutto, è costata a Knausgård anche grosse lacerazioni, perché ogni esperimento con la verità necessariamente coinvolge nelle spire del racconto altre persone (caso analogo, anche questo con spiacevoli risvolti giornalistici, è quello di un altro grande prosatore, l’Emmanuel Carrère di Yoga). Ma non bisogna pensare che con La stella del mattino, lungo romanzo uscito in patria nel 2020, Knausgård, lasciandosi (temporaneamente?) alle spalle il genere narrativo autobiografico abbia deciso di navigare in acque tranquille.
Tanto per cominciare, questo lungo romanzo corale ci parla nientemeno che dei confini tra la vita e la morte, di ciò che conosciamo del mondo e di ciò che invece non arriveremo mai a conoscere, della fatale solitudine di ogni singolo e della sua, altrettanto irrevocabile, connessione alla grande rete dell’umano. Dando voce ai personaggi che si alternano reggendo il filo della storia, tutti a loro modo memorabili nell’assoluta «normalità», Knausgård non ha rinunciato al suo strumento artistico prediletto, la prima persona. Si potrebbe dire che ha trasferito ai suoi personaggi la stessa lucidità iperrealista, lo stesso culto del dettaglio significativo caratteristici dello scandaglio interiore impiegato per migliaia di pagine nei libri precedenti.
Questo trasferimento non è stato sicuramente indolore o meccanico, perché si trattava di costruire una decina di mondi privati, di identità irripetibili, opportunamente differenziate. Nella coralità, di per sé, non c’è molta originalità: è l’espediente narrativo centrale di molte importanti opere contemporanee, nel cinema e nel romanzo, da Magnolia di Paul Thomas Anderson a Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, tanto per fare i primi due esempi che mi vengono in mente. Tipica di Knausgård invece è la violenta torsione morale e filosofica a cui l’espediente viene sottoposto nella Stella del mattino. Com’è fin troppo intuibile, l’opzione per la prima persona comporta una drastica riduzione delle potenzialità informative del racconto; dal punto di vista tecnico, equivale a rinunciare a molti vecchi ed efficaci «trucchi», primo fra tutti il discorso indiretto libero. Ma soprattutto, pone al lettore il problema dell’affidabilità. Forse Pascal esagerava nel definire l’Io «odioso», ma sicuramente ogni testimonianza, ogni resoconto in prima persona producono l’ombra del sospetto. Nessun individuo a questo mondo, fosse pure il più saggio, è in grado di dimorare stabilmente nella verità. Facciamo l’ipotesi strampalata di Dio che scrive un racconto in prima persona: ebbene, nemmeno in questo caso potremmo essere sicuri della sua veridicità, non perché l’Io menta necessariamente agli altri, ma perché la sua natura lo costringe a ingannarsi, a vedere solo ciò che sa vedere. Il mondo come si presenta all’Io è una specie di illusione ottica, il risultato di una rifrazione e dunque di una distorsione.
È un fatto addirittura ovvio, ma Knausgård (e qui sta il colpo di genio che fa da pietra di volta all’architettura della Stella del mattino) lo sollecita poeticamente come meglio non si potrebbe. Perché tutti i personaggi del romanzo, come se inciampassero in qualcosa di più grande di loro, alla fine di un giorno torrido d’estate, nell’inconsueto e già vagamente inquietante paesaggio costiero di una Norvegia dove il termometro raggiunge, se non supera, i 30 gradi. Si tratta di una stella: di una nuova stella che invade con la sua luce improvvisa il cielo estivo. Una supernova che ha attraversato inconcepibili distanze per apparire proprio una sera d’estate del 2023 (se ho calcolato bene gli indizi, è questo l’anno in cui si svolge la vicenda)? Non è importante capire esattamente di che cosa si tratti, se sia un simbolo di vita, di morte o delle due cose insieme. Tanto più che tutti, preso atto del fenomeno, sembrano accettarlo nella sua evidenza invece che affannarsi a interpretarlo.
Semmai, il prodigio in cielo ne crea uno speculare sulla terra: perché all’improvviso questa esplosione di luce permette a tutti di vedere la stessa cosa, di accedere insomma a un mondo comune e condiviso, all’eracliteo koinós kósmos che sta oltre i confini della percezione soggettiva. Come se Knausgård, questo scrittore che è diventato celebre per il racconto minuzioso fino all’inverosimile dei fatti suoi, volesse suggerirci, con un copernicano rovesciamento di prospettiva, che solo dove finisce l’Io inizia la Verità.
Il simbolo più bello di questo passaggio dalla singolarità alla comunità, in un romanzo di così sapiente gestione dei dettagli, mi sembra quello della musica. Accade infatti molto di frequente che i personaggi della Stella del mattino ascoltino musica, soprattutto rock e pop, a volte classica. Ma raramente è una musica che risuona nello spazio: al contrario, è la colonna sonora di un perpetuo solipsismo, ascoltata in cuffia o nello spazio chiuso di un’auto. Ebbene, la stella del mattino è il contrario di questa musica privata, autistica: è il suono del mondo, e questo suono rivela tutto ciò che l’Io non riesce a percepire intorno a sé. Perché questa è la nostra condanna, come dice uno dei personaggi: «Non è che conosciamo e sappiamo quello che vediamo, è il contrario: vediamo ciò che conosciamo e sappiamo». Senza definirla esattamente, il libro di Knausgård ci indica la possibilità di rompere questo circolo vizioso, di gettare uno sguardo al di là del muro che ci tiene prigionieri.