La Lettura, 6 novembre 2022
Sulle poesie di Giorgio Manganelli
Il nome di Giorgio Manganelli è legato a una certa idea della letteratura — la letteratura come menzogna, secondo una sua celebre formula — e a una pratica estremamente versatile e funambolica della scrittura in prosa, ma non certo alla poesia. Sono pochi infatti a sapere che Manganelli, come suol dirsi, nasce poeta; e meno ancora, si può immaginare, sono coloro che hanno letto le sue poesie. Del resto lo scrittore decise di tenerle nel cassetto, e questo semplice fatto ci dice che la sua vera, decisiva nascita alla letteratura sarebbe stata comunque un’altra.
In ogni caso, tra le varie pubblicazioni che ne costellano il centenario escono adesso due volumi di versi: Un uomo pieno di morte per le edizioni Graphe.it, e Poesie, a cura e con uno scritto di Daniele Piccini, postfazione di Federico Francucci, per Crocetti Editore (qualche mese fa era uscito invece nelle edizioni Aragno Di buio in buio, con una prefazione della figlia Lietta). Così ci si può subito chiedere se queste poesie rappresentino qualcosa di davvero importante all’interno dell’opera dello scrittore milanese, e se la loro conoscenza porti allora a una ridefinizione della sua immagine complessiva. Al che si può rispondere, e con una certa sicurezza, che non è così, che queste poesie non valgono o convincono più di tanto (come più di tanto non avevano convinto, lo si è detto, il loro autore), soprattutto se paragonate non solo alla migliore poesia italiana scritta negli stessi anni, ma ancor più alla brillantezza e alla magnificenza un po’ corrusca degli scritti in prosa dello stesso Manganelli.
L’importanza di questi testi poetici è invece indiretta, va al di là di loro, in quanto si lega a ciò che possono dire, quasi fossero testimonianze e contrario, della particolare, travagliata vicissitudine creativa (ma anche esistenziale e psicologica) del loro autore. Detto altrimenti, le sue poesie diventano davvero significative se assunte come un passaggio decisivo nella storia di una vocazione. Vengono in mente casi in qualche misura simili. Leonardo Sciascia, ad esempio, che prese l’avvio come poeta soltanto per comprendere che quella della poesia non poteva essere la sua strada; oppure, più vicino a noi, Milo De Angelis, che dopo il suo primo libro di versi pubblicò un romanzo, La corsa dei mantelli, da cui gli venne la conferma, anche in questo caso per via negativa, che la sua vera natura era quella del poeta. Le cose non stanno molto diversamente per Manganelli: i suoi versi valgono anzitutto per ciò che gli consentiranno di essere, per ciò che gli indicano o rivelano piuttosto che per ciò che raggiungono, come fossero una strada su cui lo scrittore non poteva comunque rimanere.
Un uomo pieno di morte è un’antologia mentre le Poesie (nuova edizione rivista e aggiornata di un volume del 2006) offrono un’immagine ampia e dettagliata del percorso poetico di Manganelli. Se non è un’edizione critica, poco ci manca, in quanto Piccini, in mancanza di precise indicazioni d’autore, non solo ha disposto i componimenti secondo un ordinamento razionale e plausibile, ma li ha accompagnati anche con accurate annotazioni, che oltre a varie notizie sulla loro stesura e elaborazione, comprendono le varianti più significative. I testi appartengono a un quindicennio o poco più di attività poetica, dal 1945 ai primi anni Sessanta, quando Manganelli si congederà per sempre dalla poesia passando definitivamente alla prosa. La composizione delle ultime poesie e quella del suo primo libro, Hilarotragoedia, uscito poi nel 1964, si sovrappongono per qualche tempo giusto all’inizio del decennio. Sostanzialmente sono riconducibili a tre fasi o periodi principali, che corrispondono poi alle tre sezioni in cui risulta suddiviso il volume delle Poesie: i testi giovanili, scritti nell’immediato secondo dopoguerra in una lingua eloquente e marmorea (in riferimento a episodi del mito o della storia sacra), che li fa apparire già in quegli anni piuttosto anacronistici; poi un gruppo di poesie composte attorno alla metà degli anni Cinquanta (si trovano qui, con ogni probabilità, i risultati migliori), infine un cospicuo raggruppamento di testi, che poi saranno gli ultimi, scritti a cavallo tra i due decenni, in cui l’oggettivazione formale e la visibile, anche molto sonora strumentazione retorica della fase precedente viene abbandonata in favore di un flusso verbale espressionistico e tendenzialmente informale, in nome di una confessione che si vorrebbe il meno possibile mediata da ragioni di carattere culturale o letterario (nei titoli delle poesie compaiono più volte formule come pezzi isterici o scrittura automatica, che rimandano anche a tecniche compositive delle avanguardie, non solo di quegli anni ma del Novecento storico).
In tutti questi versi domina comunque la presenza, complice e ossessiva insieme, della morte. Un titolo anche un po’ lugubre come Un uomo pieno di morte non esagera affatto, da questo punto di vista, tanto più che è tratto direttamente da una delle poesie («Un uomo che è pieno di morte/ vuol essere ben vestito»). Potremmo dire che a differenza della prosa a venire, qui c’è solo la tragedia, senza il controcanto di alcuna ilarità o raddoppiamento ironico: una terrificante sofferenza individuale, la problematicità dei rapporti interpersonali, la solitudine, il confronto con l’impersonale insensatezza della macchina universale, la disperazione, da cui formule come «l’insana avventura dell’esistere», l’«ombra della morte amica», «il mio collocarmi/ nella dimensione dello zero». Questi esercizi letterari fanno pensare ad autentici esorcismi nei confronti di qualcosa — la vita, la realtà — che offende e tormenta, e che per questo, e più di tutto, fa paura. Non è un caso che torni più volte l’idea del suicidio, come non è un caso che Manganelli sentisse in quegli anni una vicinanza piuttosto stretta con la vicenda di Cesare Pavese. La vita è sentita come un’alterità ostile cui non si riesce a venire a capo. Ne è segno più di tutto il rapporto, centralissimo in queste poesie, con la donna, l’eros, la dimensione corporea, che viene vissuto come una minaccia alla propria identità e stabilità individuale (basta leggere, in tal senso, una poesia come Un volto di ragazza).
«Non sono molto interessanti/ questi scarabocchi del tuo sangue», scrive Manganelli in una poesia del 1958. Le sue straordinarie alchimie letterarie stavano per arrivare, e la poesia non avrebbe avuto ancora molta vita all’interno della sua officina di scrittore. In fondo non sorprende, se il primo compito del poeta è dire la verità, e se viceversa per lui — qui stanno la sua originalità e il suo valore — la verità non poteva essere in alcun modo distinta dalla menzogna.