Corriere della Sera, 13 novembre 2022
Biografia di Daniel Barenboim, raccontata da lui stesso
Il pianista e direttore d’orchestra si racconta alla vigilia del suo compleanno: «Da piccolo mi esibii per Ben Gurion ed ero convinto che tutti sapessero suonare il piano»
La musica è da sempre una parte costante ed essenziale della mia vita. Non dovrebbe stupire il fatto che le mie primissime reminiscenze di quando vivevo a Buenos Aires siano di carattere musicale. Sono nato nel novembre del 1942 e all’epoca in Argentina la vita culturale era palpitante e sana, alquanto informale, aperta a tutti, con un gran numero di concerti da camera e nelle case private. Era perfetta per grandi e piccini. I miei genitori erano formidabili. Non benestanti, però con una ricca vita interiore. Divoratori di libri, si immergevano in tutti gli aspetti della filosofia e della cultura. Ogni domenica, io e mio padre andavamo in libreria, e per me quello era uno dei momenti clou della settimana. Già da piccolo ero interessato alle biografie, soprattutto a quelle dei musicisti. La musica rientrava sempre tra i temi della conversazione con i miei genitori e con i loro amici.
Ho ancora ben presente l’ilarità suscitata perché da bambino pensavo che tutti quanti suonassero il pianoforte. Mio padre e mia madre erano entrambi insegnanti di questo strumento e, al di fuori della famiglia, le uniche persone che entravano in casa nostra durante il giorno erano allievi e altri pianisti. Non avevo mai incontrato individui al di fuori del nostro circolo che non suonassero il pianoforte. La gente trovava la mia convinzione molto divertente, e io non capivo il perché. Di fatto ero circondato dalla musica. A livello istintivo avevo capito che la musica era un linguaggio in cui potevo comunicare, anche se, ovviamente, all’epoca non ero in grado di formulare il concetto. La musica era una questione seria, ma soprattutto mi procurava sempre una gioia enorme. Inizialmente avevo scelto il violino, perché mio padre si era esibito in una serie di concerti con un violinista e io mi ero convinto che, se volevo suonare con lui, dovevo farlo con quello strumento. Purtroppo i miei genitori non riuscirono a trovare un violino abbastanza piccolo per me che avevo quattro anni.
PUBBLICITÀ
Così iniziai a suonare il piano a cinque anni e mezzo. Le prime nozioni le appresi da mia madre, ma nel giro di pochi mesi subentrò mio padre come insegnante. Tenni il mio primo concerto pubblico all’età di sette anni. La voce si sparse e il 19 agosto 1950 fui invitato a suonare un’esibizione solistica presso la Sala Bayer. Ricordo che la cosa mi parve del tutto naturale, non ero affatto agitato, anche se i piedi arrivavano a malapena a toccare il pedale! A quel punto mi resi conto che gli altri bambini di sette anni non facevano le stesse cose. Suonavo qualunque cosa mi proponessero, non mi sembra di aver avuto particolari simpatie o antipatie. Quando avevo 9 anni, i miei genitori decisero di trasferirsi nello stato di Israele, fondato pochi anni prima. I miei nonni materni erano sionisti, non politicamente attivi, ma comunque convinti che la cosa più naturale per noi fosse trasferirci in Israele.
Partimmo dall’Argentina il giorno dopo la morte di Evita Peron, il 27 luglio 1952. Nessuno lo disse esplicitamente, ma era chiaro che si trattava di un addio per sempre. A quei tempi non esistevano ancora i jet, e il viaggio verso l’Europa richiese un tempo atrocemente lungo. Impiegammo tre giorni, prima in aereo (a elica, naturalmente, con scali a Montevideo, San Paolo, Dakar, Isla de la Sal, Lisbona, Madrid e Roma) poi in treno. Quando finalmente arrivammo a Salisburgo, ero stremato. Tuttavia, mentre passavamo davanti al Festspielhaus, ora chiamato Casa per Mozart, notai un cartellone che annunciava una rappresentazione de Il flauto magico. Chiesi ai miei genitori di cosa si trattasse, e mi spiegarono che era un’opera di Mozart. Naturalmente i biglietti erano esauriti, ma mia madre, donna molto intraprendente e per nulla timida, disse che avrei dovuto tentare di entrare nel Festspielhaus per conto mio. Essendo piccolo, riuscii a intrufolarmi di nascosto. Vidi uno scatolone vuoto e mi sedetti là dentro come un principino. I musicisti accordarono gli strumenti, il direttore d’orchestra si avvicinò al podio e io mi addormentai subito in quella scatola buia e accogliente. Dopo un po’ mi svegliai e, non sapendo dove fossi o dove fossero i miei genitori, confuso, cominciai a piangere. Un assistente del teatro si precipitò verso di me e mi condusse immediatamente fuori: così finì la mia piccola avventura.
Alla fine del 1952 partimmo alla volta di Roma e da lì salimmo su una nave diretta a Haifa per iniziare la nostra nuova vita in Israele. Fu un periodo molto emozionante; una nuova terra, un nuovo Paese di enorme rilevanza per una famiglia ebrea. Ricordo che mi piaceva molto quella vita, fatta eccezione per l’aspetto linguistico. Trovai però subito degli amichetti, cosa che immagino fosse molto più facile ai tempi di quanto non sia oggi. Tra i miei ricordi ci sono anche un’esibizione da solista al museo di Tel Aviv nel gennaio 1953 e un’audizione per l’Orchestra filarmonica d’Israele. Avevano deciso di invitare me e a quel concerto e tra il pubblico c’era nientemeno che David Ben Gurion! Un mio zio era iscritto al partito socialista Mapai. Aveva delle conoscenze tra i membri del governo e aveva fatto in modo che Ben Gurion fosse presente. Lo incontrai dopo il concerto e lo vidi molto felice. Non sapeva assolutamente nulla di musica, ma leggeva molto. La scuola che frequentavo era vicinissima alla sua residenza e così mi propose di andare a esercitarmi al piano in casa sua. Shimon Peres era il suo segretario, e fu lui ad aprirmi la porta quando andai a studiare da loro. Mi avevano insegnato a essere molto educato e ringraziai di cuore Ben Gurion per avermi permesso di usare il pianoforte nella sua residenza. Gli domandai se ci fosse qualcosa che potevo fare in cambio. Sì, rispose, e poi mi disse che amava leggere, anche nelle lingue che non parlava bene. Uno dei suoi libri preferiti era il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes e così, stringendo con me un accordo alquanto suggestivo, Ben Gurion mi chiese di leggergli dei brani del Don Chisciotte in spagnolo quando andavo a esercitarmi e lui era in casa.
Rimasi in Israele senza fare altri viaggi dal dicembre 1952 fino all’estate del 1954, quando tornammo a Salisburgo, questa volta per partecipare alle lezioni di direzione d’orchestra di Markevitch. Quell’estate incontrai anche Wilhelm Furtwängler, una delle figure che più hanno influenzato tutta la mia vita musicale: fu estremamente gentile e mi invitò a suonare con la Filarmonica di Berlino. Se ripenso a quei primi anni, ora che mancano pochi giorni a compierne ottanta, mi sembrano al tempo stesso del tutto normali e altrettanto straordinari. Ai tempi non mi sentivo giovane come in realtà ero, così come ora non mi sento vecchio come di fatto sono. Col senno di poi, capisco che le mie esperienze da bambino potrebbero sembrare strampalate a chi non le ha vissute. Ma per me sono soltanto la mia vita. Come posso dire? A me sembrava tutto normale. Con l’amore, la cura e la saggezza profuse nei miei confronti, i miei genitori hanno instillato in me un profondo senso di fiducia e sicurezza che mi ha guidato per tutta la vita e durante la carriera: sono cresciuto e diventato un giovane uomo che viaggiava e si esibiva da solo, iniziando a farsi conoscere come direttore d’orchestra, riaffermando più e più volte il fatto di essere un direttore d’orchestra, oltre che un pianista. Per me la musica è sempre stata una gioia, mai un dovere, anche se assai presto mi sono reso conto che c’erano alcune cose indispensabili, ad esempio fare una doccia prima del concerto, intorno alle sei di sera. Ho mantenuto questa abitudine per tutta la vita. La musica non è una professione, è uno stile di vita. Così ho trascorso tutta la mia esistenza: dentro la musica e grazie alla musica.