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 2022  novembre 13 Domenica calendario

Autobiografia economica dell’Italia



Il 18 agosto 1926 Benito Mussolini sosta a Pesaro durante uno spostamento verso Riccione e arringa la folla radunata nella piazza del municipio. In realtà poche, vaghe parole. Rilette con la sensibilità di oggi, sorprendentemente spoglie di argomenti e punti di riferimento comprensibili. Eppure quel breve discorso di Pesaro sarebbe rimasto celebre e avrebbe finito per costare all’Italia circa 400 tonnellate delle sue riserve auree – almeno due o tre punti del prodotto interno lordo – ma soprattutto lunghi anni di salari e stipendi in declino, disoccupazione più o meno malamente mascherata e umiliazioni internazionali.
Eppure, appunto, nel discorso di Pesaro Mussolini non disse poi molto, anche se con la solita vuota enfasi: «Noi condurremo con la più strenua decisione la battaglia economica in difesa della lira e da questa piazza a tutto il mondo civile dico che difenderò la lira fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo sangue – dichiarò il capo del governo —. Non infliggerò a questo popolo meraviglioso d’Italia l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della lira». Poi la minacciosa conclusione: «Il regime fascista è disposto, dal suo capo all’ultimo gregario, a imporsi tutti i sacrifici necessari».
Inizia così il mito di «quota 90», il tentativo – purtroppo riuscito – di riportare la lira nel Gold standard, il sistema di cambio già all’epoca agonizzante, su un tasso di cambio artificialmente elevato per ragioni di orgoglio nazionale. E meno male che c’è Gianni Toniolo, che con uno straordinario lavoro di archivio e di ricomposizione politica e istituzionale ci restituisce oggi un quadro vivo e ragionato di quella avventura. Toniolo è senza dubbio il maggiore storico italiano dell’economia e ha appena pubblicato per il Mulino il primo volume della sua Storia della Banca d’Italia (1893-1943), che in realtà è semplicemente una storia economica del Paese nel contesto europeo e internazionale, ricostruita attraverso documenti di prima mano ritrovati negli archivi: quello, ricchissimo, dell’istituto di via Nazionale e quelli di Washington. La vicenda di «quota 90» è solo una delle molte che Toniolo ricostruisce nei dettagli fondamentali e inediti.
Scrive Toniolo: «Mussolini soffriva la svalutazione della lira come la sola macchia in una gestione politica e di governo che giudicava di grande successo». Dieci giorni prima del discorso di Pesaro il duce scrive per questo al suo ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, già allora uno dei massimi criminali di guerra della storia d’Italia in quanto ex governatore della Libia dei primi campi di concentramento, imprenditore della Sade di Venezia che avrebbe costruito la Diga del Vajont eppure ancora oggi ricordato dalla Coppa Volpi del Festival del Cinema di Venezia. Ma, appunto, scrive Mussolini al suo ministro: «Oggi la svalutazione della lira esce dal campo economico: è ormai un problema di psicologia, quindi di volontà e di fede». Chiosa Toniolo: «Diventava un problema squisitamente politico».
Già nel 1923 John Maynard Keynes, che aveva sottratto il fuggitivo Piero Sraffa alle pressioni del fascismo accogliendolo a Cambridge, era stato ferocemente sarcastico quanto alle fantasie di grandezza monetaria del duce: «La lira non ubbidisce nemmeno a un dittatore né si può darle per questo l’olio di ricino», aveva scritto. In effetti l’Italia era ancora profondamente destabilizzata dalla Grande guerra, la moneta non era pronta a rientrare nel Gold standard dopo la sospensione di oltre un decennio prima, mentre le fasi di panico finanziario si susseguivano. Toniolo ricostruisce come i crolli di borsa e della lira e i rischi di corsa agli sportelli nel 1925 avessero preoccupato Bonaldo Stringher, l’economista friulano di origine ebraica – non fascista – che dall’inizio del secolo guidava la Banca d’Italia e avrebbe avuto per primo il titolo di governatore nel 1928. Poco importa che Mussolini in quella fase godesse ancora di una certa credibilità nel sistema finanziario internazionale. Nell’aprile del 1925 il duce riceve la visita di Thomas Lamont, partner di J. P. Morgan, al quale suscita un’impressione così favorevole che il banchiere aiuterà l’Italia a ottenere un prestito in dollari, appenderà la foto del duce con dedica nel suo ufficio a Wall Street e a lui riserverà benevoli consigli per far accettare i suoi metodi all’estero: «Se il signor Mussolini dichiarasse che il regime parlamentare è finito in Italia, ciò costituirebbe uno choc per gli anglosassoni – afferma Lamont —. Se al contrario Mussolini spiegasse che le vecchie forme parlamentari hanno fallito in Italia generando caos e governi inefficienti e che pertanto dovevano essere sospese e riformate, allora gli anglosassoni capirebbero».
Non capivano però i mercati o «la speculazione internazionale» (come si diceva già allora). Nel 1926 persino la House of Morgan si irrita per lo scialo improvvido che Volpi fa dei prestiti di Wall Street per cercare di puntellare la lira. La moneta italiana in primavera ed estate subisce nuovi tracolli. Fino al fatale discorso di Pesaro, al quale però i mercati non reagiscono proprio perché così vacuo nei dettagli. Essi arrivano però pochi giorni dopo quando, nota Toniolo, Mussolini «riuscì a dare l’olio di ricino alla lira».
Stringher e i suoi uomini in Banca d’Italia, competenti ed estranei al regime, capivano che la debolezza del cambio era dovuta al deficit commerciale del Paese negli scambi con l’estero. Sapevano che cercare di rivalutare la lira non avrebbe fatto che ridurre le esportazioni ancora di più. Mussolini e Volpi invece, come curatori medievali che applicano le sanguisughe, pensavano che la colpa della lira debole fosse in un eccesso di moneta in circolazione. Due settimane dopo Pesaro il duce scrive a Stringher proclamandosi «fanatico della politica deflazionista» e ordinando una stretta al credito, che nei quindici mesi seguenti sarebbe crollato in Italia del 43%.
Fu solo l’inizio dei sacrifici che avrebbero portato alla faticosa riammissione della lira nel Gold standard a «quota 90», per l’esattezza un cambio di 92,46 lire per sterlina. Il sistema monetario internazionale, già allora un anacronismo, sarebbe crollato comunque con la Grande depressione degli anni Trenta che contribuì a scatenare. Eppure per sostenere quel cambio il regime avrebbe bruciato negli anni seguenti circa tre quarti delle sue riserve auree (le 400 tonnellate) e fatto appello all’«oro alla patria».
Bisogna ringraziare Gianni Toniolo per un’opera di straordinaria ricchezza, una sorta di autobiografia economica della nazione. E il governatore Ignazio Visco per avere facilitato e sostenuto questo progetto, che ora continua con il secondo volume dal 1943 ai giorni nostri.