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 2022  novembre 13 Domenica calendario

Intervista a Zdenek Zeman


Racconta Zdenek Zeman, nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, La bellezza non ha prezzo : «Ho visto tutto. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi Miramare dove la padrona era anche la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto e da poveri diavoli di periferia con cravatte improbabili. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina...».
Che nome è Zdenek?
«Sidonius, in latino. Viene dalla radice zidati, che significa creare, costruire. Un nome, un destino. Ho sempre cercato di creare gioco e felicità. Bellezza, appunto».
Lei è nato a Praga nel 1947, due anni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa. Come ricorda la Cecoslovacchia comunista?
«Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva».
Chi spariva?
«A un altro piano viveva un campione mondiale di hockey su ghiaccio. In una trasferta all’estero aveva pensato alla fuga; fu scoperto e arrestato. Lo rivedemmo dopo cinque anni».
Com’era la vostra casa?
«Vivevamo in due stanze. Papà e mamma dormivano in tinello, mia sorella Jarmila e io in cucina. Ma non ci sentivamo poveri, anzi; rispetto agli altri eravamo ricchi».
Infanzia dura.
«Ci costringevano a festeggiare il compleanno di Stalin e di Lenin, ma io non ho mai portato un fazzoletto rosso. In compenso avevo una mazza da hockey e quattro palloni, anche se ogni tanto gli zingari me ne rubavano uno. Facevamo il catechismo di nascosto. Eravamo una famiglia molto cattolica».
Lei lo è ancora?
«Non sono più praticante. Ma quando morì il mio Papa, Giovanni Paolo II, mi misi in fila a San Pietro per andare a salutarlo. Volevano farmi passare avanti; rifiutai. La notte in coda fu bellissima».
Roma è la sua città d’adozione.
«Vivo qui da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene».
Come trova la capitale?
«È una splendida città antica, e una metropoli moderna piena di problemi che nessuno affronta».
Perché?
«Perché gli italiani rimandano sempre tutto a domani».
Lei per quale squadra tifa?
«Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera».
Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime.
«Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima».
Lei arrivò in Italia per la prima volta nel 1966, in Sicilia, proprio per far visita a suo zio.
«Pensavo di non poter vivere lontano da Praga; non avevo ancora visto il mare di Mondello. Presi l’abitudine di passare l’estate a Palermo. Anche quella del 1968, quando a Praga arrivarono i carri armati sovietici».
E lei tornò in patria.
«A inizio novembre. Volevo finire l’università. Il 16 gennaio del 1969 si diede fuoco Jan Palach. Il 30 giugno ripartii per l’Italia; il giorno dopo i comunisti chiusero le frontiere. Non vidi i miei genitori e mia sorella per vent’anni».
Suo zio Cestmir divenne allenatore della Juve.
«E vinse due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco...».
Il 1972 è anche l’anno del disastro aereo di Punta Raisi.
«In cui morì mio cugino, il figlio di mio zio: Cestmir junior, detto Cestino. Un dolore terribile. Era il 5 maggio. Lo zio se n’è andato lo stesso giorno, trent’anni dopo, mentre la sua Juve vinceva uno scudetto insperato: 5 maggio 2002, il crollo dell’Inter all’Olimpico».
In Sicilia lei trovò la donna della sua vita.
«Vidi Chiara e capii subito di essere innamorato. Siamo insieme ancora adesso».
E cominciò ad allenare il Bacigalupo. Presidente, Marcello Dell’Utri.
«Andai a casa sua. Ricordo l’ascensore privato. Era già un uomo ricco».
Capiva di calcio?
«Come Berlusconi: capiva il suo calcio, non quello dei suoi allenatori».
Poi lei passò alle giovanili del Palermo.
«I campi erano in terra battuta: a ogni scivolata perdevi sangue, ora sono diventati campi nomadi. I tesserati erano due. Misi un annuncio sul giornale: cercasi calciatori. Si presentarono a decine. Presi tutti quelli che sapessero fare tre palleggi di fila».
E cominciò ad applicare la sua filosofia.
«Gradoni, sacchi di sabbia, corse ripetute. In un torneo al Nord incontrammo Juve, Toro e Milan, dove giocava Paolo Maldini, e le battemmo tutte. Andavamo al doppio della loro velocità. Tuttosport scrisse: questo Palermo è una piccola Olanda».
Nel 1978 frequentò il supercorso di Coverciano, con Arrigo Sacchi.
«C’erano anche Agroppi e Mondonico. Uno psicologo ci fece il test dell’ansia: trenta domande cui rispondere con la massima sincerità. Il più ansioso era Agroppi con il 90%, poi Mondonico con l’80. Pure Sacchi non scherzava».
E il suo livello di ansia?
«Zero».
Dopo le giovanili del Palermo, il Licata.
«Una Nazionale siciliana, tra loro parlavano tutti in dialetto. C’era pure Maurizio Schillaci, il cugino di Totò. Aveva più talento, ma gli mancava la testa: un bravo ragazzo dalle pessime frequentazioni. Quando mi rubavano l’autoradio mi rivolgevo a lui. Il giorno dopo me la riportavano».
Lei allenò Totò Schillaci al Messina, in serie B.
«Aveva un senso pazzesco del gol: ne fece 23, anche se quasi tutti in casa».
Gianni Brera la definì «tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg».
«Pesavo i giocatori ogni mattina. Più si allenavano, più la partita diventava un divertimento. A fine stagione le altre squadre erano stanche; le mie correvano più di prima».
A Foggia inventarono la parola Zemanlandia.
«Erano appena stati promossi in B. Il primo anno arrivammo ottavi, il secondo vincemmo il campionato. Signori-Baiano-Rambaudi fecero 48 gol».
Era il 1990. Il 9 novembre dell’anno prima era crollato il Muro.
«Il presidente del Foggia, Casillo, mi caricò sul suo aereo privato e mi portò a Praga. Rividi mio padre, mia madre, mia sorella, e mi pareva di averli lasciati il giorno prima. Tutte le mie cose erano lì dove le avevo lasciate: i palloni, la mazza da hockey. Mi sono sentito felice».
Casillo poi finì in carcere.
«E io andai all’uscita ad aspettarlo. Sapevo che era innocente. L’hanno riconosciuto dopo tredici anni».
Che tipo era?
«Un generoso. Avevamo un terzino sinistro velocissimo, Codispoti, che al momento del cross combinava di tutto, con i piedi che aveva. Allora Casillo gli mise centomila lire nella scarpa: se non sbagliava poteva tenersele».
Come fu l’esordio in serie A?
«Pareggiammo 1 a 1 a San Siro con l’Inter. Dissi a Matrecano, che avevo preso dalla Turris, C2, per 25 milioni di lire: “Tu marchi Klinsmann”. Klinsmann non toccò palla. Quando tornammo a San Siro con il Milan, dissi a Matrecano: “Tu marchi Van Basten”. Van Basten fece tre gol».
Al ritorno a Foggia ne prendeste 8.
«Alla fine del primo tempo vincevamo 2 a 1. Ma i miei ormai erano ceduti ad altre squadre, pensavano solo a segnare. Si ritrovarono tutti nella metà campo del Milan, che li infilò in contropiede. Comunque chiudemmo noni, con il secondo miglior attacco della serie A. E Matrecano passò al Parma per sei miliardi».
Al Nord lei non ha quasi mai allenato.
«Al Centro-Sud si mangia calcio. Una volta Boksic mi disse: a Torino vinci lo scudetto e dopo un’ora non frega niente a nessuno; a Roma avremmo festeggiato mesi».
Nella capitale lei arrivò nel 1994, ad allenare la Lazio.
«Firmai nella sede della Banca di Roma, e trovai la cosa molto strana. C’era pure Geronzi, il banchiere, e mi chiese quale allenatore avrebbe dovuto prendere la Roma. Lui pensava a Trapattoni».
Lei cosa rispose?
«Che ero appena diventato il tecnico della Lazio, e non potevo dare consigli ai rivali».
Ma nel 1997 ad allenare la Roma andò lei.
«La Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero».
Lei denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo.
«Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza».
A cosa si riferisce?
«Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio».
In primo grado il medico dei bianconeri, Agricola, fu condannato, ma in appello fu assolto.
«Non perché il fatto non sussistesse, ma perché “non era previsto dalla legge come reato”. Saltò il presidente del Coni, cominciarono controlli anti-doping seri. E i risultati si videro subito».
Cosa accadde?
«Scoppiò lo scandalo del nandrolone. Giocatori trovati positivi inventarono scuse puerili. Couto del Parma, che era un capellone, diede la colpa a uno shampoo. Un altro, che era stempiato, a una lozione contro la caduta. Bucchi e Monaco del Perugia alla carne di cinghiale. Ci finirono dentro pure Davids e Guardiola. E io pagai un prezzo altissimo».
Vale a dire?
«Il campionato 1998-1999 fu un calvario di torti arbitrali, che costarono alla mia Roma almeno 21 punti. A Udine ci inventarono un rigore contro. Avevamo un attaccante, Fabio Junior, immeritatamente detto l’Uragano blu, che non segnava mai; quando finalmente fece un gol, glielo annullarono, non si è mai capito perché. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti... Così con Sensi decidemmo di fare nuovi acquisti».
Invece Sensi la mandò via.
«Il sistema lo convinse che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla».
Arrivò Capello, e nel 2001 vinse lo scudetto.
«Ma con spese folli, tipo i 70 miliardi per Batistuta trentunenne, che costarono a Sensi il tracollo finanziario. E Capello non partecipò alla festa al Circo Massimo, che io non mi sarei perso per niente al mondo. Invece mi ritrovai senza contratto; del resto avevo sempre voluto accordi annuali. Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti».
Così si ritrovò a Napoli, poi a Lecce, di nuovo a Foggia, quindi a Pescara. Dove si imbatté in tre giovanissimi destinati a una grande carriera.
«Immobile aveva fame. Insigne aveva talento. Verratti aveva bisogno di trovare la posizione giusta. Faceva il trequartista o la mezzala; lo impostai da regista davanti alla difesa. Dove gioca ancora adesso, nel Psg e in Nazionale».
Chi è stato il giocatore più forte di tutti i tempi?
«Pelé. Per come si comportava fuori dal campo. Chissà cosa avrebbe fatto Maradona, se non fosse caduto schiavo della droga e delle cattive frequentazioni».
E il giocatore più forte che ha mai avuto?
«Totti. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato».
Gascoigne?
«Non giocava quasi mai. Infortuni. E scherzetti. Avevo un fischietto antico cui ero affezionato; un giorno in allenamento non lo trovai più. Gascoigne l’aveva legato al collo di un tacchino».
E Tommasi, che ora fa il sindaco di Verona, com’era?
«Bravo e serio. Non mollava mai, neppure quando lo fischiava tutto lo stadio».
Perché lo fischiava tutto lo stadio?
«Perché sbagliava troppi passaggi. Poi però i palloni li recuperava».
D’Alema dichiarò: «Zeman? A volte dire la verità è colpa gravissima».
«Era presidente del Consiglio, venne a trovarci a Trigoria. Non ha le mie idee politiche; ma l’importante era che fosse romanista».
Quali sono le sue idee politiche?
«Sono amico di Alessandro Di Battista. Mi ha anche proposto un seggio al Senato; ma la politica non fa per me, e forse neanche per lui. Nel 2018 però ho votato Cinque Stelle».
Sempre antisistema.
«Qualche sistema buono ci deve pur essere. Però ne ho conosciuti pochi».
Resta il fatto che lei non ha mai vinto nulla.
«Ma ho regalato emozioni, lanciato talenti. Il calcio è un gioco, e io l’ho vissuto così. Ho sempre preferito vincere 5 a 4 che 1 a 0».
San Siro va abbattuto?
«No. Meglio semmai abbattere l’Olimpico: la partita si vede male per colpa della pista d’atletica, che si usa una sera l’anno».
Ma potrebbe servire per l’Olimpiade.
«L’Olimpiade è nella migliore delle ipotesi uno spreco, nella peggiore un’occasione per rubare. Come lo fu Italia ’90. Come temo saranno i Giochi invernali di Milano e Cortina».
Alla fine del libro lei parla dei suoi due figli.
«Il primo, Karel, fa l’allenatore da 15 anni, anche se non ha ancora trovato la squadra giusta. Il secondo, Andrea, odiava il calcio, che gli portava via il papà. Ha avuto un brutto male al colon, ma è guarito. Ha lavorato alla Lega contro i tumori, ha fatto le campagne anti-fumo. Il figlio di Zeman contro le sigarette...».
Quanto fuma al giorno?
«Partivo da tre pacchetti. Ho ridotto a uno e mezzo».
Guardi che ha fumato un pacchetto e mezzo in tre ore.
«Ero un po’ teso per l’intervista...». E Zeman finalmente sorride.