Corriere della Sera, 13 novembre 2022
Ritratto di Rosario D’Onofrio
Di giorno procuratore capo degli arbitri, di notte narcotrafficante. La doppia vita di D’Onofrio era così: dalle 8 alle 18 lo chiamavano «dottore», poi una volta uscito dall’ufficio diventava «Rambo», il suo nome nel giro dello spaccio. Roba da dottor Jekyll e mister Hyde, un caso stranissimo, dove la stranezza principale sta però tutta in una domanda: come diavolo era possibile che dentro all’associazione arbitri nessuno sapesse del suo arresto nel maggio 2020? Dopo ore di imbarazzato silenzio, la replica è arrivata in serata della stessa Aia, che ha spiegato come D’Onofrio avesse omesso di raccontare dell’arresto e della condanna. Una spiegazione doverosa, arrivata in coda a una giornata durissima per il mondo degli arbitri, costantemente nel mirino per vicende di campo, per quel rigore dato o non dato, ma mai per una storia interna di criminalità come questa. Quarantadue anni, ex ufficiale medico dell’esercito poi sospeso quando s’è scoperto che non aveva la laurea in medicina, casa nel Milanese, questo D’Onofrio era entrato in Aia nel 2013 sotto la lunga presidenza di Marcello Nicchi. Primo incarico: giudice sportivo. «Un funzionario serio, applicato, puntuale, preciso, apprezzatissimo» assicura chi lavorava con lui, incredulo. Tanto che nel marzo del 2021 arriva addirittura la promozione, e che promozione: il neo presidente Alfredo Trentalange lo nomina capo dell’ufficio indagini degli arbitri. Un passo falso in realtà c’era stato, ma nulla di eccezionale, roba interna: la Procura della Federcalcio lo aveva deferito a fine ottobre per omissione d’inchiesta su una questione di giudizi. Certo, solo qualche mese prima, a luglio, gli avevano consegnato il premio Concetto Lo Bello come «dirigente nazionale particolarmente distintosi»: un dettaglio che non fa altro che acuire l’imbarazzo del mondo arbitrale, che si ritiene parte lesa e starebbe valutando azioni legali. Il danno d’immagine è enorme. Ripararlo non sarà semplice.