la Repubblica, 13 novembre 2022
Ritratto di Martin Scorsese
Martin Scorsese ha resistito a lungo prima di trasformare il suo ottantesimo compleanno in una celebrazione: ama festeggiare in famiglia, ma Leonardo DiCaprio è riuscito a convincerlo organizzando in prima persona una festa in grande stile, rigorosamente in cravatta nera. Insieme a Woody Allen, è il regista maggiormente identificabile con New York, ed è felice che l’evento possa sigillare anche un ennesimo segno di rinascita di una città che lui conosce e ama come pochi. L’occasione festosa offre in primo luogo l’opportunità di riflettere su una carriera straordinaria tuttora in piena attività: mentre sta completando il montaggio di Killers of the Flower Moon, nel quale recitano insieme DiCaprio e De Niro, ha in cantiere The Wager, ancora con DiCaprio naufrago nel 1740, una serie su Mike Tyson, una tratta da Gangs of New York, un’altra ancora dal Diavolo e la città bianca, un film come produttore su un giovane che vuole lavorare per Henry James, un altro su Leonard Bernstein diretto e interpretato da Bradley Cooper, un documentario su Powell e Pressburger e infine una serie su Theodore Roosevelt, un uomo dalle passioni vulcaniche che ha reso gli Stati Uniti la prima potenza mondiale. Ho voluto elencare tutti questi progetti per partire da una caratteristica imprescindibile della sua personalità: l’energia vorace con cui affronta ogni attività e ancor prima ogni scelta. Anche adesso che ha raggiunto gli ottanta anni, Scorsese è un uomo perennemente in azione, alla ricerca di qualcosa che individui un filo di armonia e forse una possibilità di redenzione all’interno di un percorso esistenziale segnato da passioni incontrollabili, spesso ossessive e violente. Con questo non voglio assolutamente intendere che non sia dotato di talento riflessivo, coltivato anche grazie alla squisita sensibilità della moglie Helen, nipote di Edith Wharton, e al dialogo con il gesuita James Martin, consulente in Silence e interprete di un cameo in The Irishman. Ma nel suo caso l’introspezione va di pari passo con l’azione, conducendolo in territori nei quali sono presenti la colpa, il peccato e l’espiazione: la sua cifra evidente è quella dell’ homo faber, che attraverso film meravigliosi esibisce i propri tormenti interiori e i propri limiti con l’intento di esorcizzarli e combatterli. Da questo punto di vista un altro personaggio determinante nella sua formazione è stato Haig P. Manoogian, suo mentore alla New York University al quale ha dedicato Toro scatenato, accompagnando la scritta con una citazione dal vangelo di San Giovanni: “Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”. In quel caso il riferimento evangelico non era solo alla possibilità di una redenzione spirituale, ma anche all’esser riuscito a uscire da una grave depressione e a liberarsi dalla dipendenza della cocaina.
L’inconfondibile parlata velocissima è lo specchio di questo approccio esistenziale, così come la sua strabordante generosità, che lo ha visto restaurare film di ogni parte del mondo, presentare retrospettive, girare documentari per esaltare musicisti e registi, recitare in film di amici e scoprire nuovi talenti, ultimi dei quali i fratelli Safdie. Nonostante faccia una vita appartata, attribuisce un valore sacrale all’amicizia, e la cerchia degli intimi coincide spesso con i collaboratori: oltre a Robert De Niro, la montatrice Thelma Schoonmaker, lo sceneggiatore Jay Cocks, il co-regista dei documentari Kent Jones, a cui si è aggiunta recentemente Fran Lebowitz a cui ha dedicato due ritratti filmati. Racconta sempre con orgoglio che i genitori provenivano da Ciminna e Polizzi Generosa, due paesi in provincia di Palermo, e tuttora si emoziona a sentire parlare il dialetto siciliano. Una volta, ospite a Salina di Paolo e Vittorio Taviani, non uscì dalla camera nella quale era ospitato sino a tardi, e quando i registi gli chiesero preoccupati se c’era qualcosa che non andava, lui rispose, commosso “mi sono incantato a sentire le voci che parlavano con l’inflessione della mia gioventù”. Al padre Charles e alla madre Catherine ha dedicato un documentario memorabile, intitolato Italian-American, e in seguito li ha fatti partecipare a molti suoi film, affidando anche i ruoli di genitori di malviventi. Non si tratta di uno scherzo, ma della volontà di sottolineare come riesca a vedere sempre elementi di luce anche nelle tenebre: uno dei temi che tratta ripetutamente è la corruzione, ma il suo approccio è morale e mai moralista.Oggi vive nell’Upper East Side, ma è nato a Flushing nel quartiere di Queens e ha passato la sua adolescenza nella Little Italy di Manhattan, dove per un uomo con il temperamento, così racconta, crescere in quelle strade significava avere due opzioni: diventare gangster o prete. Decise di entrare in seminario ma un giorno, costretto a casa da una grave forma di asma, vide in televisione Paisà di Roberto Rossellini, e rimase “piegato in due” dalla potenza e la purezza di quel capolavoro. Comprese in quel momento che anche l’arte può migliorare il mondo e aiutare a dipanare il mistero dell’esistenza, consentendo di intuire l’universale nel particolare. Ha studiato cinema alla Nyu e poi lo ha insegnato, forgiando un’intera generazione di registi: tra i suoi allievi universitari Oliver Stone e Spike Lee. Scegliendo di dedicare la vita al cinema è riuscito a sublimare quelle che a Little Italy gli apparivano scelte obbligate: buona parte dei suoi film sono dedicati a personaggi violenti, ma c’è sempre, in alcune occasioni sottotraccia, altre volte in maniera più evidente, una profonda spiritualità e l’anelito per una possibile redenzione. Ho avuto il privilegio di assistere a un suo incontro con papa Francesco durante il quale hanno parlato di Dostoevskj, autore prediletto da entrambi, e in particolare di Memorie del sottosuolo, prima ispirazione di Taxi Driver. Scorsese era a Roma per presentare alla Festa del Cinema The Irishman, e alla domanda del Papa su che tema trattasse il film ha risposto semplicemente “parla del rimorso.” Se si pensa che il protagonista è un assassino che ha ucciso anche il migliore amico, può sembrare una risposta sconsolata, ma il film finisce con la richiesta da parte del criminale a un sacerdote di tenere aperta la porta dopo una confessione che non si conclude.Per comprendere come il rapporto con la violenza sia motivo di tormento e riflessione, e non di semplice spettacolarizzazione basta pensare ai titoli di testa di Toro scatenato, forse il suo massimo capolavoro: Scorsese è affascinato dall’idea che Jake LaMotta avesse come unico talento quello di far male, consapevole che sul ring ciò lo avrebbe portato al trionfo e fuori dal ring alla rovina. Ci mostra il pugile che si riscalda mentre parte l’intermezzo della Cavalleria rusticana e intorno a lui il mondo appare indefinito e ostile: con un tocco di genio sostituisce il rumore dei flash con quelli di colpi di arma da fuoco. Non è certo l’unica sequenza indimenticabile del suo cinema, e il suo prodigioso magistero registico non si riduce mai a semplice virtuosismo: il piano sequenza di Goodfellas con cui Ray Liotta entra in un night club dal retro per far scena su Lorraine Bracco è formidabile dal punto di vista tecnico, ma racconta in primo luogo un mondo e un’emozione, e lo stesso si può dire per gli uomini che reggono il cappello in una giornata ventosa nell’ Età dell’innocenza o per l’appuntamento nel deserto in Casinò. Pochi registi al mondo hanno un linguaggio così potente sul piano dell’immagine e una capacità di esaltare il talento degli attori, spesso con battute memorabili: in Taxi Driver De Niro che chiede alla sua immagine allo specchio “Stai parlando con me?”, Joe Pesci che terrorizza Ray Liotta inGoodfellas chiedendogli “buffo come?”, Matthew McConaughey che delira su come funziona la borsa in Wolf of Wall Street.La sua inimitabile personalità d’autore è esaltata anche in alcuni, formidabili film che non hanno avuto successo, come New York New York e Re per una notte, ancora una volta incentrati su personaggi ossessivi, e conta poco che siano dotati di talento in misura opposta. È impossibile passare una serata con lui senza essere conquistati dal suo amore viscerale per il cinema. In primo luogo ci sono ovviamente i registi che venera, come ad esempio Elia Kazan a cui ha dedicato uno splendido documentario e ha voluto consegnare personalmente l’Oscar alla carriera tra le proteste di chi non gli aveva perdonato di aver fatto i nomi all’epoca del maccartismo. Ma è in grado di parlarti con analoga passione di registi e film sconosciuti, dimenticati o addirittura scomparsi, per non parlare del cinema italiano, che conosce come pochi e ha celebrato con la lucidità dell’esperto e la passione dell’artista nel documentario Il mio viaggio in Italia. Sia la casa che l’ufficio sono tappezzati con manifesti originali dei capolavori del nostro cinema oltre a quelli degli altri film della sua vita, ma vedendo i poster del Gattopardo, Scarpette rosse eQuarto potere o i costumi e i cimeli di Scala al paradiso e Io ti salverò, ti rendi conto che non si tratta di semplice ammirazione né tantomeno di feticismo, ma della costruzione di un sistema che gli consente di interpretare qualcosa di più grande e misterioso. Negli ultimi anni, l’aggravarsi della condizione fisica della moglie Helen ha rarefatto le uscite pubbliche, ma non c’è volta che non si spenda con la consueta generosità perché il cinema non sia qualcosa di effimero. Nessuno tra i grandi registi ne ha una conoscenza così antologica e dettagliata, e sono pochissimi con la sua competenza tecnica: è per questo che può permettersi di dire che ciò che conta non è sapere come si fa un film, ma perché.