la Repubblica, 13 novembre 2022
Intervista a un medico di base
Anche venerdì scorso il dottor Claudio Drago si è svegliato alle 7 e ha fatto colazione. Quando ha acceso il cellulare, allo 8, sono iniziati ad arrivare messaggi e telefonate: «Ho la febbre», «Ho bisogno del certificato di malattia», «Mi serve la richiesta per una ecografia». Ogni giornata parte così ed è destinata a finire una dozzina di ore e 80 pazienti dopo. Medico di famiglia a Correzzola, provincia di Padova, il dottor Drago ha 62 anni e 1.800 assistiti, che potrebbero pure aumentare. Se li sente tutti sulle spalle, sia gli anni che i pazienti.
È uno dei tantissimi medici di famiglia che negli ultimi tempi sono andati oltre il “massimale”, che sarebbe di 1.500 assistiti. Succede perché questi professionisti stanno diminuendo. Secondo i dati di Agenas, l’Agenzia sanitaria delle Regioni, sono passati da 42.428 nel 2019 a 40.250 l’anno scorso. Nel panorama difficile degli organici dei camici bianchi «la carenza principale riguarda i medici di famiglia che sebbene rapportati alla popolazione siano apparentemente sufficienti, risultano inferiori rispetto alle medie Ue e non omogeneamente distribuiti sul territorio», dice Agenas.
Come mai i suoi assistiti sono più del limite di 1.500?
«Un collega che lavorava nello stesso paese è andato in pensione e mi hanno chiesto la disponibilità a prendere almeno 300 suoi pazienti.
Altri sono stati assegnati a colleghi della zona. E il numero totale dei miei assistiti potrebbe anche crescere, con i ricongiungimenti familiari, e io già così sono stremato».
Secondo alcuni gli ambulatori dei medici di famiglia non restano aperti per abbastanza ore.
«Io faccio quattro mattine e due pomeriggi alla settimana. Ma il punto è che lavoriamo anche con lo studio chiuso. La mattina presto vado a trovare i miei 30 assistiti che si trovano in una residenza per anziani. Poi visito al domicilio dei pazienti, quelli che magari hanno febbre e altri sintomi, e i malati terminali o oncologici, che seguo con infermiere e collega che si occupa di cure palliative. Capita che da qualcuno riesca ad andare solo la dopo cena».
E il telefono?
«Sono di quei medici che danno il numero di cellulare e rispondono pure. A tutti. Così squilla di continuo. Molti chiamano quando è chiuso lo studio. E poi c’è la burocrazia da svolgere».
Quanti pazienti la contattano in un giorno?
«Se faccio ambulatorio, tra mattina e pomeriggio fisso una trentina di appuntamenti, ma poi ci sono altre 10-20 persone che si magari presentano senza aver prenotato perché lamentano problemiurgenti. Così finisce che la sera invece di chiudere alle 19.30 vado avanti fino alle 21-21.30. Diciamo che se a una cinquantina di visite sommiamo chiamate e mail posso anche arrivare a 80 persone con le quali ho avuto contatti in un giorno».
Lavorare in un posto piccolo non è un fatto positivo?
«Insomma. Intanto bisogna viaggiare da un paese all’altro per le visite domiciliari. Io faccio circa 40 mila chilometri all’anno con la macchina. Poi abito a Correzzola e quindi mi capita spesso di incontrare miei assistiti per la strada. Non sempre c’è buona educazione, e così trovo chi mi dice: “Buongiorno, già che ci siamo incontrati le chiederei una cosa”. Diciamo che non si stacca mai».
Nel weekend però non lavora.
«Mi fermo a partire dal sabato pomeriggio e poi la domenica ma, anche non considerando il periodo più duro del Covid, quando ho lavorato anche 16 ore al giorno, negli ultimi due anni ho fatto in tutto dieci giorni di ferie. È anche un problema trovare i sostituti. Il tempo per la famiglia quindi è molto poco. A pranzo arrivo due ore dopo, la sera idem, in vacanza non andiamo quasi mai».
Per questo è sempre più difficile per la sanità pubblica reclutare
medici di famiglia?
«La situazione non è uguale dappertutto ma nei posti così piccoli, dove magari non si riescono a fare studi con più professionisti insieme, tanti decidono di non venire. Il carico di impegno è alto, così i colleghi vanno in burn out e magari decidono di cambiare mestiere. Qualche tempo fa è capitato proprio con un dottore di un paese vicino. C’erano pazienti che lo cercavano ma non lo trovavano più. Ma lui aveva avvertito: “Basta, smetto e chiudo lo studio”».