la Repubblica, 13 novembre 2022
Festa a Kherson
l ragazzo che saltava tra i proiettili, punito perché «avevo acceso il forno»; la contadina fucilata perché «urlava di dolore per la sua mucca saltata in aria»; la signora che «ma che gli vi aveva fatto, il mio barboncino, per sparargli così?». Il viaggio nella terra degli Orchi, nei paesi liberati dalla ritirata russa a Kherson, è un pieno di emozioni e orrore.
L’Ucraina oggi è in festa: «Non dimenticheremo nessuno verremo in Donbass e vedremo le bandiere ucraine in Crimea», dice il presidente Zelensky annunciando che già 61 villaggi sono riconquistati nel sud. Ma si guarda avanti. Mentre l’esercito avanza a sminare e liberare, a Kherson scatta il coprifuoco dalle 17 alle 8: è caccia grossa ai sabotatori.
«Passate qui, non ci sono mine». Èl’imbrunire quando Lonia, 31 anni, ci apre le porte dei paesi appena liberati dall’occupazione russa. Una carrareccia tra i campi oltre Pribuzhke, i solchi profondi dei blindati. Lì una carcassa d’auto incenerita, «piano qui che ci sono le voragini delle esplosioni. Era un inferno, fino a mercoledì».
Nella notte tra martedì 8 e mercoledì, qualche ora prima che il generale Surovikin dichiarasse ufficialmente «il ripiegamento» sull’altra sponda del Dnipro, i russi se ne sono andati da Pravdyne, occupata otto mesi prima. È stato il primo paese liberato nella ritirata: è lì che stiamo andando.
«Non ci metto piede da prima del 24 febbraio. Gli orchi sono arrivati quasi subito, e non se ne sono mai andati. Noi eravamo il primo paese dalla parte ucraina del fronte, e non sono riusciti a conquistarlo. Però ogni tanto li vedevamo passare con le loro zeta tra i campi vicino al paese, lo hanno demolito», racconta mentre ci lasciamo alle spalle casematte interrate e trincee abbandonate. «Lì c’erano i nostri – dice Lonia – andavo a portargli l’acqua». Ha 31 anni, è un ingegnere e lavorava al parco solare sconquassato dalle bombe all’ingresso del suo paese. Oggi lo pagano a mezzo stipendio per fare manutenzione, e lui usa il trattore della centrale per caricare una cisterna da mille litri d’acqua e dissetare il paese, facendo la spola tra le 38 anime «rimaste insieme a me nonostante le bombe». Erano 1.800, prima della guerra.
A metà strada della dozzina di chilometri tra Pribuzhke e Pravdyne, ecco le postazioni russe. Ficcare il naso sarebbe troppo pericoloso: le regole per sopravvivere sono chiare, mai mettere un piede fuori dall’asfalto o dalle piste battute. Figuriamoci ora che fa già buio. Gli incursori ucraini sono arrivati venerdì a Kherson, ma il resto delle truppeprocede lentamente, guardingo per il timore di attentati. Gli sminatori aprono le vie principali, per le secondarie ci vorranno settimane ed è un lavoro infame: ieri uno di loro ci ha quasi lasciato le mani. Una svolta, un ponticello sghembo, tutti a piedi a parte l’autista o resteremmo incastrati. Lì dietro, ecco le prime case di Pravdyne.
«La nostra Pribuzhke è messa peggio», fa subito i confronti Lonia vedendo tetti sventrati e muri mozzi, «sì, ma almeno sono quasi tutte in piedi». Procediamo lentamente, è già buio fitt o. Il paese pare deserto. Non un rumore, non una luce. Nonc’è nulla di vivo, nemmeno un cagnolino abbandonato. Un rettilineo, ombre di case, ruderi. Pare davvero la terra degli orchi. E invece eccoli, gli umani: una bicicletta, la brace di una sigaretta. In un casotto che forse era una fermata dell’autobus ci sono quattro persone sedute a bere vodka. «Ehi», urliamo. «Dobrij vechir», buonasera, «venite!».
Ci vuole poco a rompere il ghiaccio, nel buio di un paese senza luci, nel nero infinito di un paese senza fiato. «Finalmente!», dicono, e ti assaltano per un abbraccio e una storia, un altro abbraccio e un goccio di vodka che fa un freddo cane, qui. Sacha Petrov è il più sobrio, il più arrabbiato. «La vedi questa faccia? Era grossa il triplo», dice raccontando di quando i russi lo hanno pestato a sangue. «Mi ero iscritto alla difesa territoriale il giorno prima che ci invadessero, mi hanno sempre guardato con sospetto e facevano bene. Mi accusavano di dare le coordinate ai nostri – ride – perché notavano che ogni volta che perdevano uomini e unità avevano incontrato me. All’inizio avevano 184 mezzi corazzati a Pravydne, dopo un po’ gliene erano rimasti 62. Mi avevano pestato a sangue, ma un giorno mi presero e mi portarono via incappucciato. Non so dove, mi infilarono in un sotterrane e ogni tanto mi torturavano. Ero insieme ad altre due persone: un giorno ci fecero uscire dallo scantinato, ci sollevarono il cappuccio che non potevamo mai toglierci e ci costrinsero a guardare mentre fucilavano tre dissidenti: “Così sapete cosa vi faremo”, dissero». Invece lo liberarono. «Mi buttarono fuori da un’auto in corsa insieme a un vecchietto, sulla strada tra Kherson e Chornobaivka».
A Nadja Ivanova è andata peggio. «Aveva 56 anni – racconta Sergej Rebishenko, 26 anni – un giorno un colpo di artiglieria le ha ucciso la mucca e ferito il marito. Lei lo ha medicato, poi è uscita in strada arrabbiata nera e c’era un carro armato russo che sparava da lì davanti. “Stronzi, lo vedete cosa combinate?”, ha urlato. E il soldato sulla torretta del carro le ha sparato col kalashnikov». E pure Sergej se l’è vista brutta, come tutti qui. «Noi giovani eravamo sempre in pericolo», dice. «A me un giorno hanno sparato tra i piedi perché avevo acceso il forno a legna: fa fumo, cretino, mi hanno urlato, e mi hanno sparato una raffica senza mirare», alla ‘ndo cojo cojo. E poi c’è Igor Iliashenko che è infuriato perché i russi gli hanno ucciso il suo sogno, «per 20 anni io e Natalja abbiamo migliorato il nostro negozio di alimentari e non ci siamo mai presi un giorno di ferie per andare al mare, mai una vacanza, e ora guarda cos’hanno combinato!», dice puntando il dito su un edificio squinternato e senza tetto. Però il suo è l’unico negozio rimasto nel paese, «lo rifornivo andando a Kherson». È aperto anche adesso, di giorno o se vuoi fare il pieno di vodka.