il Giornale, 13 novembre 2022
Ritratto di Edoardo VIII
All’indomani della abdicazione di Edoardo VIII, Harold Nicolson, che era allora un brillante cinquantenne membro dell’establishment, nonché il marito di Vita Sackville West, annotò sul suo diario il giudizio negativo quanto sprezzante di chi ne era stato il segretario privato, Sir Alan Lascelles: uomo senz’anima, né cultura, né amicizie, un «odiatore» del suo Paese. Un collega dello stesso Nicolson, il deputato Robert Barneys, affidò al proprio diario considerazioni simili, condensandole in una definizione azzeccata: «È il figlio viziato del successo con la mentalità da stella del cinema». Erano probabilmente questi due elementi che fino ad allora avevano fatto di quello che sarebbe poi diventato il duca di Windsor, prima un erede al trono e poi un sovrano popolarissimo, in difesa del quale Winston Churchill si era speso con tutte le sue forze e viene da chiedersi, visto che in quel dicembre del 1936 in cui Edoardo VIII decade da monarca le «simpatie» di quest’ultimo per la Germania hitleriana erano note, come mai lo stesso Churchill le considerasse tutto sommato ininfluenti... A meno di non ammettere che in quella prima metà degli anni Trenta, gli intrecci anglo-tedeschi, a cominciare dalla stessa dinastia reale per poi estendersi ai gradi alti del potere politico-economico britannico fossero molto più estesi e solidi di quanto in seguito si sarebbe voluto far credere, e l’idea di un appeasement fra le due nazioni una via tanto percorribile e/o auspicabile, quanto non disdicevole.
Con il suo tirarsi fuori «per amore» Edoardo VIII risolse in fondo sul momento il problema, anche se, sempre sul momento, non si rese conto di ciò che l’abdicazione comportava per lui. Avrebbe dovuto costruirsi un ruolo, ma l’unico ruolo per cui era stato costruito era quello regale, da lui banalmente buttato via per una donna. Si era illuso che togliendosi di dosso il peso delle responsabilità gli sarebbe rimasto l’onore e il piacere di continuare a comportarsi come prima, a dettar legge sulla corona come sui fratelli, in particolare su quello balbuziente e privo di glamour che ne aveva preso il posto e che in fondo era salito al trono grazie a lui... Che non sarebbe stato così lo comprese quando, subito dopo l’abdicazione, l’orario delle sue telefonate al re suo fratello venne ribaltato da quest’ultimo: era lui che decideva quando e se chiamarlo e/o essere chiamato... «È stato commovente vedere la sua faccia» commentò Lady Alexandra Metcalfe, un’amica di famiglia: «È talmente abituato che tutto venga fatto come desidera che temo avrà altri shock come questo». Alla fine, Giorgio VI dispose che il centralino di Buckingham Palace non gli inoltrasse più le chiamate... Non si sentiva ancora ben saldo sul trono Giorgio VI, e stando all’ambasciatore inglese negli Stati Uniti, Sir Ronald Lindsay, si comportava «come un monarca medievale che ha un odiato rivale che vive in esilio».
Il re traditore, di Andrew Lownie (Neri Pozza, traduzione di Giovanni Arganese, pagg. 399, euro 22), è l’ultima biografia in ordine di tempo su Edoardo VIII e per quanto il sottotitolo dell’edizione originale, The Scandalous Exile of The Duke and Duchess of Windsor, indichi anche gli anni che seguirono l’abdicazione e fino alla morte dei due protagonisti, il cuore del libro sta in quel titolo, ovvero nel sospetto che, non più re, non per questo il duca di Windsor smise di essere filo-tedesco o, più sbrigativamente parlando, filo-nazista e in tal senso tramò contro il proprio Paese e contro quella monarchia di cui comunque continuava a fare parte.
Il tema è delicato quanto scivoloso, ma non nuovo. Si sa che nel 1937, e ormai sposato, il duca di Windsor e sua moglie Wallis fecero un viaggio di un paio di settimane in Germania il cui clou fu un incontro con Hitler a Berchtesgaden, il che sollevò critiche, provocò il successivo annullamento del viaggio negli Stati Uniti e spinse lo stesso duca ad annunciare al Daily Herald che in futuro non si sarebbe più considerato «un personaggio pubblico». Contemporaneamente però, stando a Lownie, in un’intervista sempre allo stesso giornale dichiarò che se il Partito laburista lo avesse voluto, e fosse stato in grado di fargli una simile offerta, era pronto a divenire il presidente della Repubblica inglese... Questa professione di disponibilità, se non di fede repubblicana, ovviamente non venne stampata...
Che il nazismo vedesse nel duca di Windsor una pedina importante dello scacchiere diplomatico, in pace come in guerra, è fuori discussione. Che dallo scoppio della guerra in poi, ovvero dal settembre del 1939, i tentativi di coinvolgerlo più strettamente si moltiplicassero, anche, con in più tutto quello che una simile opera di accerchiamento poteva comportare: false informative, esagerazioni, pettegolezzi scambiati per realtà, illazioni trasformate in certezze, spie fatte assumere come domestici... In quell’anno, e poi ancora nel ’40, il Duca visse fra Francia, Spagna e Portogallo: nella prima, in quanto aiutante di campo della missione militare britannica, un modo per tenerlo lì occupato, visto che Giorgio VI aveva posto il veto a un suo impiego in patria, visionò la Linea Maginot e ne fece un rapporto molto critico quanto lungimirante, a dimostrazione che non era così inetto come si voleva far credere. Naturalmente Londra non ne tenne il minimo conto.
In Spagna, allora neutrale, stette in totale nove giorni, dal 23 giugno al 2 luglio, ma sembra difficile vedere in questo arco di tempo relativamente lungo una sua volontà di mantenere comunque contatti stretti con la Germania, che a Madrid aveva la sua più alta concentrazione di spie. In realtà, come deve convenire lo stesso Lownie, fu il governo inglese a tenerlo in stand by, perché il duca di Kent andava proprio allora in visita a Lisbona e quindi dal punto di vista della diplomazia britannica era meglio che i due non si incontrassero... Era insomma la stessa corona inglese a pasticciare quanto al futuro del suo ex re, il che favoriva ogni forma di chiacchiere, fraintendimenti, supposizioni, nonché dava vita a un frenetico balletto di spionaggio e controspionaggio, iniziative di pace di vari Paesi, Inghilterra e Germania comprese, nonché del Vaticano e della Croce Rossa.
In Portogallo il duca stette un mese, ma anche qui non per sua volontà. Già il 4 luglio, due idrovolanti della Raf lo attendevano sul fiume Tago per riportarlo in patria, ospite del duca di Westminster nella sua residenza del Cheshire, ma fu allora che Churchill offrì al duca di Windsor l’incarico di governatore delle Bahamas e iniziarono perciò le trattative relative al nuovo ruolo e al relativo viaggio.
Prove più consistenti se non di un tradimento cosciente, sicuramente di un coinvolgimento di Edoardo rispetto al nazismo stanno nei documenti dell’archivio del ministero tedesco degli Esteri recuperati nel 1945 dagli americani nel castello di Degenershausen. A lungo silenziati dal governo inglese, raccontano amicizie, abboccamenti e contatti, pressioni e doppi-giochi che videro la coppia «reale» avere avuto a che fare con chi allo scoppio della guerra era di fatto diventato «il nemico». In particolare, c’è un telegramma dell’agosto ’40 in cui il duca stabilisce un codice speciale con il banchiere portoghese Santo Silva, di cui era ospite fuori Lisbona, in modo da essere pronto qualora un suo ruolo di mediatore con Hitler fosse divenuto concreto causa una sconfitta inglese, una sorta di Pétain d’oltremanica... Tuttavia, se Santo Silva era un agente tedesco già noto come tale agli inglesi nel ’40, non si capisce perché l’ambasciata britannica in Portogallo non lo avesse fatto presente al duca consigliandogli e/o predisponendo per lui un’altra sistemazione...
Nell’insieme, Il re traditore è un libro interessante, pieno di testimonianze anche inedite, da cui emerge soprattutto, ma anche questa non è una scoperta, che fra Edoardo e Wallis l’uomo della coppia era la donna. Il più bel ritratto della Simpson non è di un diplomatico o di uno storico, ma di un giornalista, Collins Brooks: «Una creatura dalle linee dure in tutto, i capelli scuri divisi e lisci come quelli dipinti su una bambola olandese, la linea della bocca dura, duri gli occhi, il severo vestito nero tagliato in linee dure». Brooks lo scrisse nel 1938, in occasione di una serata allo Sporting Club di Montecarlo, ma quella è rimasta la immagine della Simpson sino alla fine.