Il Messaggero, 13 novembre 2022
Intervista a Enrico Vanzina
«Sono ossessionato da Casanova ed era giunto il momento di raccontare Venezia, a modo mio». Firmato Enrico Vanzina, il grande regista italiano che nel corso degli ultimi quarant’anni ha firmato, insieme al fratello Carlo, alcuni dei più grandi successi al botteghino italiano. Dopo La sera a Roma seguito da Mio fratello Carlo, Una giornata di nebbia a Milano e Diario diurno, martedì 15 novembre Vanzina tornerà sugli scaffali con Il cadavere del Canal Grande (HarperCollins), un brillante giallo storico, un romanzo di cappa e spada nella tradizione di Alexandre Dumas, con un intreccio ambientato nella mitica Venezia del Settecento, richiamando in scena Giacomo Casanova e Giovanni Battista Tiepolo. Vanzina segue le peripezie di un giovane francese Jean de Briac che si ritrova invischiato nel ritrovamento di uno smeraldo di gran valore. La pietra preziosa lo condurrà da Ginevra, una sensualissima locandiera e poi, in una lotta contro il tempo per salvarsi la pelle, fra colpi di scena, azione ed erotismo, giungendo sino all’ultima pagina, incrociando le strade con il celebre seduttore in fuga dalla giustizia. In queste pagine ritroviamo il gusto della narrazione, la voglia di divertirsi e intrattenere il lettore, omaggiando i grandi narratori d’un tempo, «in controtendenza – afferma Vanzina in questa intervista esclusiva al Messaggero con la narrativa italiana contemporanea che si autoflagella con storie autoreferenziali che non pensano al pubblico e non lo sanno più divertire».
Vanzina, perché ha scelto di scrivere un giallo storico nella Venezia del Settecento?
«Ho immaginato un trittico ambientato nelle città italiane, iniziando con La sera a Roma (2018) e proseguito con Una giornata di nebbia a Milano (2021) e volevo chiuderlo con Venezia, prendendomi l’agio di cambiare ancora una volta stile. Nel primo libro parlavo di cinema e giornalismo, il secondo era un giallo che veniva risolto con la Letteratura, infine, giunto in laguna, volevo tornare indietro nel tempo sino al Settecento, scrivendo il mio primo giallo storico».
E Giacomo Casanova?
«Mi ossessiona da sempre. Mio padre, Steno, nel 1954 diresse
Le avventure di Giacomo Casanova con Gabriele Ferzetti ma fu un film molto sfortunato, avversato dalla censura che lo tagliò di venticinque minuti. Una vera tragedia. Vede, questo personaggio recava grandi sofferenze a casa nostra al punto che, quando ho cominciato a leggere sul serio, mi sono lanciato proprio sulle memorie di Casanova, Storia della mia vita, e lo considero il più bel libro della letteratura italiana, pur se scritto in francese».
Perché l’ha colpita tanto?
«Perché racconta l’uomo. È un inno alla vita e alla libertà in senso assoluto. E attorno al mistero di Casanova ecco apparire una pietra preziosa, una corsa contro il tempo, chiamando in causa persino il Tiepolo, maestro di pittura. Ho fatto le mie ricerche, volevo ricreare le atmosfere dei Tre Moschettieri, firmando un romanzo d’appendice colto, parlando d’amore e cattiveria, con scene anche pulp alla Tarantino e creando una dark lady che ricorda la locandiera di Goldoni».
Il risultato è un libro che diverte. Era il suo scopo?
«Proprio così. Siamo accerchiati da un cinema e una narrativa piuttosto noiosa che non racconta nulla. Ecco, io volevo scrivere una storia pura che fosse capace di intrattenere».
Ha ragione Nanni Moretti quando critica il cinema italiano?
«È un dato di fatto. Non possiamo dimenticare che i film raggiungono il pubblico che non può essere snobbato o preso in giro. Il cinema dev’essere colto o leggero ma sempre vivace, pieno di emozioni altrimenti a cosa serve?».
Ha la sensazione che la critica letteraria snobbi i narratori?
«Oggi la narrativa italiana è troppo autoreferenziale, si guarda l’ombelico e racconta storie in fotocopia che non fanno più sognare e paradossalmente, i narratori puri sono considerati cheap, modesti proprio perché sono amati e letti. Ci siamo dimenticati che l’utente finale sia per il cinema che per la letteratura è lo stesso, il pubblico».
Amplessi, triangoli di passione e tradimenti. La Venezia del Settecento era decisamente hot?
«Parecchio. In alcuni momenti, Il cadavere del Canal Grande è abbastanza spinto, richiamando l’aspetto licenzioso e libertino di quel tempo. Ma quel mondo sapeva essere anche ipocrita, del resto, Casanova venne imprigionato con l’accusa di libertinaggio».
E oggi, il sesso è tabù?
«Credo che oggi il sesso sia troppo libero e globalizzato, perdendo di fascino e mistero, lasciando riemerge un moralismo strisciante».
Pensando ai vostri film campioni di incassi, con il moralismo e l’atteggiamento bigotto di questi anni, avreste avuto guai?
«Ma non ci saremmo fermati. Per chi fa il cinema o scrive, l’unica soluzione è quella di metterci sempre la faccia, prendendosi la responsabilità senza accettare alcun diktat. Io sono un liberale, non posso accettare la censura morale».
Vanzina, lei perché scrive?
«La penso come Flaiano. Si scrive per sconfiggere la morte».
E la sua Roma, come sta?
«Perennemente in attesa d’eventi, proprio come la Roma calcio. Chiariamoci, Roma è la città più bella del mondo ma la sua fregatura è che è troppo bella e per indolenza e culo, alla fine passano i secoli e lei se la cava sempre».
Troppa bellezza ci fa male?
«Sorrentino la pensa così ma io non sono d’accordo».