il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2022
Intervista a Marco Tullio Giordana
Regola numero uno: “Per favore non utilizzi mai il sostantivo ‘narrazione’ e altre gergalità simili”.
Delineati i confini lessicali, Marco Tullio Giordana ha ben chiari pure quelli sociali, politici e artistici; confini che con lui possono coincidere, sovrapporsi o, magari, alternarsi come in una staffetta di chi la propria esistenza non l’ha mai giocata di traverso o di spalle.
Lui sa, ha le prove e da sempre desidera mostrarle. Per questo ora è a Venezia e giovedì 17 debutta al Goldoni con Pa’, spettacolo costruito insieme a Luigi Lo Cascio.
“Pasolini è più idolatrato che capito”, parole sue.
Aggiungerei “che letto”; mi sembra una di quelle figure dove la leggenda ha prevalso sull’opera: per molti esiste un Pasolini per sentito dire, utilizzato come un mantra in grado di aggiustare tutto; o come colui che ha previsto tutto, che ha visto tutto, che è contro tutto.
Con errori grossolani?
La sua opera è talmente vasta che è complicato pensare di averla letta integralmente.
Lei l’ha letta o studiata?
L’ho studiata molto da contemporaneo di Pasolini; (pausa) da giovane ero affascinato dalla sua poesia, soprattutto dal suo non rinnegare la tradizione; (ci pensa) sono stato ragazzo alla fine degli anni Sessanta e l’andazzo generale era quello di ribaltare ogni cosa, di distruggere, di non costruire: lui, al contrario, era un intellettuale con al centro della poetica il rispetto della tradizione, il suo studio e la possibilità di trasformarla in qualcosa di vitale.
Anche nel cinema?
I film li ha realizzati in appena un quindicennio. E con lui si può realmente parlare di cinema e non solo di film, eppure sono differenti l’uno dall’altro.
Qual è la differenza?
I film possono anche essere scollegati tra di loro, frutto di esperienze così diverse da rendere difficile le gemme di una collana; il cinema è quando di un autore si riconosce una continuità, il che non vuol dire ripetere la stessa opera, ma c’è la presenza di un qualcosa di inimitabile e penso a Kubrick.
Così in Pasolini, quindi.
Ha iniziato quasi come un epigono del neorealismo, con le borgate, la realtà come feticcio, per poi tramutarsi in un cineasta completamente visionario e penso a Medea.
Marco Tullio Giordana è cinema?
(Stupito) Io? (Pausa e sorride) Ma no.
Sicuro?
Da morto, forse.
Gli attori che hanno lavorato con lei lo credono.
Mi vogliono bene perché li amo, ma non so se sono riconoscibile, non ci penso, non ci voglio pensare; (pausa) a me sembra sempre di emettere dei vagiti, di essere uno appena venuto al mondo, non sento mai nulla di compiuto; ricordo una frase del mio primo montatore, Sergio Nuti, un genio: “Guarda che il tuo film è la somma di tante sequenze di altri film che girerai, che tu ami, e che dentro di te monterai”. Questa frase è stata un sollievo.
Perché?
Mi ha sgravato dall’idea che un film dovesse contenere tutto, essere già una creatura perfettamente autosufficiente, adulta e magari congelata.
I suoi attori ogni volta la ringraziano.
Mi fa piacere; ho avuto la fortuna di debuttare al cinema con un interprete eccezionale come Flavio Bucci, un uomo tormentato, come lo sono spesso gli artisti, eppure generoso; (cambia tono) per anni ho pensato che non mi volesse bene, e per anni non ci siamo incontrati: l’ho rivisto poco prima della sua morte e ho scoperto il suo affetto; debuttare con lui è stato come guidare una Ferrari senza avere la patente. Chissà quante sciocchezze gli ho detto; (pausa) da artisti come lui e da altri come Vittorio Mezzogiorno ho imparato molto.
In particolare?
Il regista vede e imposta, ma l’attore possiede un punto di vista che non è meno interessante; nei miei primi film ero innamorato della cinepresa, delle evoluzioni, e anelavo di assomigliare ai miei idoli del tempo come Bertolucci e Bellocchio.
Non Rosi?
Lo ammiravo, ma apparteneva a una generazione di maestri per me remoti: allora non potevo immaginare che sarei diventato un suo amico, che saremmo andati al cinema insieme. Per me era una leggenda lontana e irraggiungibile al pari di Fellini, Antonioni o Visconti. Mentre Bertolucci e Bellocchio mi apparivano come dei fratelli maggiori già affermati, ma con i quali era possibile allungare una mano per toccargli una spalla e chiedergli di illuminarmi.
È geloso delle sceneggiature?
Le considero importanti, ci perdo molto tempo e sono accurato; poi sul set neanche leggo la scena da girare. È più interessante chiedere agli attori “come la fareste?”. Da lì trovo semplice correggere e scovare la strada.
Torniamo a Pasolini, lei ha dichiarato: “Gli ho preso quanto ho potuto per farlo sopravvivere”.
Dopo la morte c’è stata un’eclissi sulla sua figura, perché le circostanze della tragedia, i processi, avevano contribuito a rendere elettrica la materia; per me, che avevo 25 anni, appariva come una figura centrale, era come essere stati dei contemporanei di Leopardi o di Dante; (pausa) non il più importante, perché ci sono stati Montale, Ungaretti, Bertolucci, Penna, Saba, poeti eccezionali.
Però…
Con Pasolini la dimensione civile della poesia era forte, riallacciandosi alla tradizione di Petrarca e Leopardi; non andava dimenticato, non andava inserito nello scaffale impolverato di una biblioteca. Ho sentito dentro come una missione.
Da subito.
Il giorno dopo la sua morte comprai tutti i giornali per capire come ne scrivevano.
Per Zigaina, amico storico di Pasolini, il suo omicidio è in realtà un suicidio.
Zigaina parla di suprema messa in scena, aspetto che è nella poesia di Pasolini: questo passaggio l’ho inserito nel mio spettacolo perché in lui c’è un continuo evocare la morte come soluzione, parla pure delle circostanze e di smembramento del corpo…
Quindi?
La tesi di Zigaina è suggestiva dal punto di vista poetico, ma ho studiato i processi e i fatti sono altri.
Laura Betti ha bollato malamente Zigaina.
La Betti era una donna difficile, ma eccezionale. E con lei ho avuto grandi scontri, tanto che credevo avesse su di me un giudizio feroce; poi ho scoperto il contrario; (sorride) su di lei Francesca Archibugi ha coniato un’espressione geniale: “Laura parla bene alle spalle”.
È ritenuto un regista in possesso di un archivio importante di carte.
È vero e sono sparse in vari luoghi; (ride) sul mio archivio sono abbastanza paranoico.
È in posti segreti.
Pure a casa di amici e in doppia copia.
Si è mai sentito attenzionato?
(Sorride) Attenzionare è un termine bandito esattamente come narrazione; comunque non credo.
Carolina Rosi ha raccontato delle minacce ricevuto da suo padre.
Quando Rosi gira Le mani sulla città e soprattutto Il caso Mattei va molto vicino alla verità, e in un altro periodo della nostra storia; (cambia tono) che fosse controllato mi sembra verosimile, mentre le vicende di cui mi sono occupato sono remote non in grado di cambiare il corso della storia.
Di quale segreto vorrebbe conoscere la verità?
Ho studiato tanto il caso Moro, poi per fortuna è arrivato Marco Bellocchio a liberarmi dall’ossessione; (pausa) nel mio primo film, le due figure che venivano indicate dal protagonista come ossessione, erano Pasolini e Moro; già allora, per me, la loro eliminazione ha cambiato il corso del fiume.
Quando la chiamano “maestro” come si sente?
Penso a Monicelli quando rispondeva “maestro de che?”; l’unico che si può fregiare di questo appellativo era Fellini.
È sempre senza tv?
Sono quindici anni.
Non ha ceduto neanche per la pandemia.
Ho una biblioteca enorme, amo la musica, amo mia moglie, sto volentieri con lei.
Negli anni Settanta ha mai “gridato cose orrende e violentissime”?
Credo di no, anche per una certa refrattarietà alla folla; (ci pensa) la folla mi è sempre sembrata indomabile, quindi paurosa, un po’ come il mare, pure quando è calmo.
Lei da ragazzo.
Volevo diventare pittore, l’arte era il miraggio della mia vita e avevo un certo talento.
Più coltivato?
No. Però mi ha insegnato ad andare per musei e chiese; (pausa) mi ha sempre stupito non trovare lì i miei compagni di corteo: va bene la protesta, ma vedere un Giorgione, un Poussin, non è male.
Astrattista o figurativo?
“Pittore” rivolto a me è un termine non corretto, comunque il mio riferimento era Bacon; nel 1972 sono andato a Parigi per vedere la prima antologica a lui dedicata: lì ho deciso di rinunciare alla pittura, ero troppo sopraffatto, sarei stato solo un imitatore, tanto che quando sono uscito dal Grand Palais avevo deciso di suicidarmi da un ponte sulla Senna.
E poi?
Di ponte in ponte, alla ricerca di quello buono, sono arrivato a Passy dove ho trovato una troupe: era la prima scena di Ultimo tango a Parigi. Sono stato tutto il giorno a spiarli e mi sono detto: “Forse sarebbe meglio dedicarmi al cinema, c’è tanta gente, se arriva un momento di crisi ci si aiuta”. Lì è morto un pittore ed è nato un cineasta.
E a 29 anni trovarsi davanti Bucci non deve essere stato semplice.
Era brusco ma affettuoso, non oppositivo; la prima inquadratura delle mia vita è lui di spalle e all’inizio del ciak si è girato verso la macchina da presa e ha alzato la mano: “Cosa fai Flavio?”. “Saluto il film”. Quanto vorrei ritrovare il frammento.
Perché non ci sono più attori maledetti alla Bucci? Oggi sono molto da Accademia…
È il modello trionfante, ma dentro tutti gli attori, anche quelli apparentemente irrigimentati, hanno un aspetto maledetto; il mondo va verso il doppiopetto, anche in figure irregolari come gli artisti.
Per Proietti l’Accademia non era fondamentale.
Un attore come lui, con quella tecnica incredibile, la voce straordinaria, l’imponenza del fisico, come può un’Accademia metterlo in regola? Un po’ come Gassman, Volontè, Mastroianni, Orisini o la Asti; (pausa) Mastroianni è il mio prediletto.
Più di Volonté?
Lo ammiro e non voglio mancargli di rispetto, ma preferisco Mastroianni perché ha una latitudine più ampia degli eroi che ha portato sullo schermo: tanta umanità diversa; mentre Volonté si è concentrato su un tipo di uomo, il rivoluzionario, quello contro, anche se sarebbe stato capacissimo di puntare pure ad altro.
Cosa pensa all’ultimo ciak di un film?
(Sorride) Lavoro sempre con la stessa troupe, quindi non mi denunciano al tribunale del politicamente corretto; la mia frase è: “Adesso, vecchi bastardi, a casa, non voglio vedervi per almeno un altro paio di anni”.
Come mai sempre le stesse persone?
In questo sono più un regista teatrale che cinematografico; voglio gli stessi tecnici o gli stessi macchinisti così si saltano tanti passaggi, non c’è bisogno di spiegarsi, interpretarsi, capirsi; non abbiamo bisogno di parcheggiare: siamo tutti in seconda fila pronti a scappare se arriva un vigile.
Cosa la offende sul set?
A dire la verità nessuno osa più offendermi; se fosse possibile chiedo sempre di non presentarsi come degli spacciatori o dei tagliagole.
Vanessa Scalera racconta: “Con lui sul set si respira un rispetto antico”.
Non è imposto da scenate, è una specie di passione comune; poi se qualcuno parla posso diventare una belva, posso uccidere; Vanessa Scalera ha un talento prodigioso
Nel 2023 sono vent’anni da La meglio gioventù: per tutti gli attori che hanno partecipano è un film fondamentale.
Penso a un manifesto della Democrazia cristiana con su scritto “La Dc ha vent’anni” e sotto lessi: “Buona da fottere”; (cambia tono) era un gruppo di attori bravissimi, motivati, freschi. Oggi sono diventati stupendi, si sono conservati bene anche moralmente. Ne sono un po’ orgoglioso come quei vecchi capofamiglia un po’ rincitrulliti. Li rivedo sempre volentieri.
Soprattutto Lo Cascio.
Ha una grandissima potenza nonostante l’apparenza gracile: lavorando con lui su Pasolini ho colto aspetti inediti di Pasolini stesso.
Lei chi è?
Sono in grado di rispondere? A questa domanda cos’hanno detto gli altri?