Corriere della Sera, 13 novembre 2022
Gli incentivi per non andare in pensione
l nuovo piano del governo per le pensioni: incentivi per chi rinvia il ritiro. L’ipotesi di un premio del 10%.
Gianfranco Giorgetti ha due obiettivi, quando guarda alle pensioni sullo sfondo dei delicati equilibri del sistema Italia. Il primo è rivederle senza aggiungere ulteriori costi, dunque a parità di spesa sull’orizzonte dei prossimi anni. Ma il secondo obiettivo del ministro dell’Economia è rivederle senza depauperare le imprese e il welfare delle competenze oggi così difficili da reperire sul mercato del lavoro. Per questo, con il sostegno della premier Giorgia Meloni, al Tesoro si sta studiando un sistema che apra finestre di uscita dal lavoro prima dei 67 anni, sì. Ma in parallelo offra incentivi in busta paga – a zero costi per lo Stato e per le imprese – a chi decide di restare occupato.
Centrare questi obiettivi tutti insieme sarà facile come attraversare un canyon in equilibrio su una corda. Perché Giorgetti si trova di fronte a una situazione che non è né di destra né di sinistra, ma semplicemente la realtà «a legislazione vigente»: anche se dal primo gennaio tornasse in vigore la legge del 2012, che prevede la pensione con pieni diritti solo a 67 anni (la legge Fornero).
Il quadro è nei numeri dell’ultima Nota di aggiornamento su economia e finanza pubblica (Nadef). Alle tendenze attuali il costo delle pensioni in Italia sale di 58 miliardi al 2025, più 19,5% in tre anni. Un punto netto in più di prodotto interno lordo (Pil) in termini reali. Questo aumento non è solo molto più rapido della crescita prevista dell’economia, anche includendo l’effetto dell’inflazione sul fatturato (+13,4%). È anche il doppio più rapido della crescita dei contributi, il cui flusso dovrebbe salire di 32 miliardi ed essere a metà di questa legislatura di 59 miliardi all’anno inferiore alle pensioni da pagare. Ed è più rapido, l’aumento del costo delle pensioni, anche della crescita di tutte le entrate tributarie: con le leggi oggi in vigore, queste ultime sono destinate a salire di dieci miliardi in meno degli assegni di quiescenza.
Ciò significa che nel meno costoso dei casi oggi contemplati (legge Fornero) le pensioni fra tre anni costeranno circa un punto di deficit su Pil in più all’anno. E questo con una Nadef che, sempre alle leggi attuali, vede la spesa per la sanità pubblica in calo reale di quasi il 15% al 2025 – in uno dei Paesi più vecchi del mondo – e le altre voci di welfare in calo di oltre il 13%: tutti tagli socialmente poco sostenibili e dunque forse anche poco verosimili. Questi sono i dati di un Paese ad altissimo debito pubblico che non può permettersi di sbagliare. Ancor meno perché, in parallelo, l’economia reale manda segni di carenza di decine di migliaia di figure specializzate in molti settori: dai medici agli idraulici, la cui uscita in pensione precoce sarebbe difficilmente rimpiazzabile e rischierebbe di menomare il potenziale produttivo del Paese.
Queste considerazioni erano chiare nella testa di Giorgetti, quando il ministro ha prospettato a Giorgia Meloni l’approccio che cercherà di tenere in Legge di bilancio. Dalla premier ha avuto disco verde a lavorare su due principi di fondo. Il primo è di ipotizzare una revisione del sistema pensionistico a equivalenza attuariale, cioè senza gravare sui costi in termini netti nel medio-lungo periodo: l’onere per le pensioni in prospettiva dei prossimi anni deve restare uguale a quello stimato oggi con la legge Fornero.
Ma è il secondo principio di Giorgetti che ribalta il paradigma dominante. Uno degli obiettivi dev’essere preservare il sistema produttivo, non far uscire di scena anzitempo manodopera poco rimpiazzabile. Per questo al Tesoro si lavora all’ipotesi di finestre per l’uscita anticipata (per esempio a 62 o 63 anni con un congruo numero minimo di anni di contributi), ma un lavoratore che abbia maturato i requisiti potrebbe scegliere di restare sulla base di incentivi ben precisi: se continua a lavorare, il dipendente e il datore smettono di versare i contributi e una parte di quelle somme entrerebbe in busta paga come aumento netto di stipendio (per esempio, di circa il 10%). L’azienda potrebbe godere di un calo del costo lordo del lavoro, il dipendente di una busta paga più alta. Poi il pensionamento avverrebbe sulla base dei contributi accumulati fino al momento in cui il lavoratore ha scelto questa opzione, senza contare l’anzianità degli ultimi anni di lavoro incentivato.
Questo sistema evidentemente presuppone che chi sceglie la pensione prima dei 67 anni debba comunque accettare una penalizzazione, rispetto al massimo dell’assegno possibile. Ma come molto in legge di Bilancio, questo cantiere resta aperto. Il vaglio politico nella maggioranza non è cominciato e potrebbe riservare sorprese. Anche nella Lega.