Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 12 Sabato calendario

FEDERICO RAMPINI SPIEGA PERCHE' L’INCONTRO TRA JOE BIDEN E IL PRESIDENTE CINESE XI JINPING AL VERTICE DI BALI SARA' "UNO DEGLI EVENTI GEOPOLITICI PIÙ IMPORTANTI DELL'ANNO" - “I DUE HANNO UN PROBLEMA IN COMUNE: COME DEFINIRE LA RELAZIONE CON L’ALTRO. XI JINPING PENSA CHE I TEMPI DI DECLINO DELL’OCCIDENTE SI SONO ACCELERATI. MA QUESTO NON SIGNIFICA CHE LUI POSSA FARE A MENO DELL’AMERICA. NÉ L’AMERICA PUÒ GESTIRE UN DIVORZIO ECONOMICO IN TEMPI RAPIDI, DOPO 30 ANNI DI INTEGRAZIONE CHE HANNO DETERMINATO UNA SIMBIOSI TRA LE DUE ECONOMIE, DI FATTO ‘GEMELLE SIAMESI’. LA ROTTURA DETERMINEREBBE COSTI ESORBITANTI..." -

L’incontro bilaterale fra Joe Biden e Xi Jinping questo lunedì a Bali, a margine del G20 presieduto dall’Indonesia, è forse uno degli eventi geopolitici più importanti dell’anno. I due non si vedevano di persona dall’inizio della pandemia. Il loro rapporto ha toccato molti punti bassi, forse il più grave fu quest’estate in occasione della visita di Nancy Pelosi a Taiwan. 

Per quanto le loro posizioni siano distanti, hanno un problema in comune: come definire la relazione con l’altro. L’antagonismo è nei fatti, la rivalità è irriducibile, e su questo la dottrina americana da Trump a Biden non ha fatto che aprire gli occhi su quella che era la visione cinese da molto tempo, forse da sempre. 

I comunisti cinesi ai tempi di Deng Xiaoping (fine anni Settanta, dopo la morte di Mao e l’avvio della transizione al capitalismo) adottarono una politica estera di basso profilo non perché volessero accettare l’ordine globale americano-centrico, ma perché non erano abbastanza forti per scardinarlo e sostituirlo. 

Ora la loro politica estera è aggressiva perché Xi Jinping pensa che i tempi di declino dell’Occidente si sono accelerati. Ma questo non significa che lui possa fare a meno dell’America.  Né l’America può gestire un divorzio economico in tempi rapidi, dopo 30 anni di integrazione che hanno determinato una vera e propria simbiosi tra le due economie, di fatto «gemelle siamesi».

Perciò il summit di Bali può servire a definire le regole del gioco di una contesa: Washington e Pechino continueranno ad essere antagoniste, ma hanno interesse a prevenire incidenti di percorso involontari, conflitti incontrollabili, spirali di incomprensione che potrebbero sfuggire di mano e nuocere a entrambe. 

Per spiegare cosa intendo per «gemelle siamesi» e perché il divorzio economico sia tanto complicato, prendo il caso di Apple. Ho già affrontato la situazione delle fabbriche Foxconn – proprietà taiwanese ma sedi in Cina – dove si assemblano la maggior parte dei prodotti Apple e in particolare l’85% di tutti gli iPhone. 

La politica «zero Covid» di Xi Jinping, che solo ora comincia ad avere qualche accenno di attenuazione (ancora molto parziale: per i viaggiatori dall’estero), ha inflitto danni pesanti ad Apple sotto forma di ritardi e scarsità nella produzione. Questi disagi si aggiungono allo scenario generale che dalla pandemia in poi ci ha reso più consapevoli dei rischi geopolitici legati a catene produttive e logistiche troppo dilatate o affidate a paesi ostili e suscettibili di ricattarci. 

Apple ha avviato la sua versione del friendly-shoring rilocalizzando alcune produzioni in paesi più amici come l’India e il Vietnam. 

Ma la partnership con la Cina non si sostituisce in fretta, né facilmente. I produttori cinesi hanno impiegato un ventennio per conquistarsi la fiducia degli americani: che è fatta anche di produttività della manodopera, affidabilità del management, controlli di qualità, integrazione con l’indotto (componentistica locale), infine logistica e infrastrutture che funzionano per trasportare grandi quantità di prodotti velocemente in tutto il mondo. Né l’India né il Vietnam offrono condizioni paragonabili, e non riusciranno a competere con i cinesi per molto tempo ancora. 

Un’altra battaglia è quella di Biden per privare la Cina delle più sofisticate tecnologie americane.  È in atto, per esempio, un embargo Usa sulle esportazioni di certe tipologie di semiconduttori, i più avanzati: non devono cadere nelle mani dei cinesi che potrebbero farne anche un uso militare. 

Però l’industria americana dei micro-chip non rinuncia tanto facilmente all’immenso mercato di sbocco della Repubblica Popolare. È di pochi giorni fa la notizia che la società Nvidia – un gigante del software basato a Santa Clara nella Silicon Valley californiana – ha trovato un modo per aggirare l’embargo di Biden e continuare a vendere ai suoi clienti cinesi (tra cui Alibaba, Baidu, Tencent) i micro-chip della categoria graphics-processing. La Nvidia ha messo a punto un micro-chip designato con la sigla A800, che non ricade nella fattispecie di quelli esplicitamente sottoposti all’embargo di Washington. 

Questo è un esempio fra tanti: l’industria tecnologica americana è impegnata in una gara di slalom tra le regole, per salvare capra e cavoli, cioè non mettersi in rotta di collisione con la Casa Bianca, non subire sanzioni, ma al tempo stesso mantenere il più possibile il suo accesso al mercato cinese. 

Separare le «gemelle siamesi» è difficile e doloroso anche dal punto di vista cinese. Scelgo un altro esempio dall’industria dei semiconduttori – un terreno strategico su cui si combatte la nuova guerra fredda – ma stavolta per illustrare la dipendenza cinese dagli Stati Uniti. 

Il caso della Advanced Micro-Fabrication Equipment (Amec) è emblematico. L’Amec è una delle aziende di punta a cui la Repubblica Popolare affida le sue speranze di fare un salto di qualità nei semiconduttori, onde ridurre la propria dipendenza da Usa, Taiwan, Corea del Sud. 

Amec però è stata fondata a Shanghai da un cinese-americano, Gerald Yin, e tra i suoi venti top manager impiega sette cittadini americani. Tutti ricadono sotto l’embargo di Biden che vieta agli americani di prestare servizi in certe aziende tecnologiche cinesi. Il futuro di Amec è improvvisamente più precario, perché privarsi del know how americano e della componentistica occidentale può avere conseguenze fatali.