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 2022  novembre 12 Sabato calendario

Intervista a Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia


«Fare l’avvocata mi dà la possibilità di realizzare cose che difficilmente potrei ottenere con la scrittura. Ma anche la scrittura ha una sua utilità». Oltre a praticare la professione, Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia insegna diritto alla Babcock University di Lagos, in Nigeria. I suoi ambiti di specializzazione sono la salute, la migrazione, la tratta di donne e bambini. Che sia riuscita a ritagliare del tempo per scrivere un primo romanzo, Due vite, due donne, insignito tra l’altro del cospicuo Nigerian Prize for Literature, ha dell’acrobatico. Le due donne del titolo sono Nwabulu e Julie – classi, destini, opportunità e problemi lontanissimi tra loro- che si ritrovano rinchiuse nella stessa stanza da misteriosi rapitori e che, raccontandosi le reciproche vite, capiscono di essere legate da vincoli indissolubili. Nel romanzo si trovano anche, traghettate attraverso una storia page-turner, tematiche come la protezione dell’infanzia e la violenza di genere, anche se l’autrice esclude una diretta influenza del suo «primo» lavoro.Come è entrata la letteratura nella sua vita e quanto spazio occupa?«La letteratura è stata il mio primo amore. Ho sempre immaginato di essere una scrittrice, ancor prima di pensare di andare all’università e studiare Legge. Quando finii il dottorato, in Canada, mi dissi che prima di fare qualsiasi altra cosa avrei dovuto provare a scrivere questo libro, correndo anche il rischio di non vederlo mai pubblicato. La verità è che oggi per me è difficilissimo trovare il tempo per scrivere, e sono certa che anche gli editori del mio secondo libro potrebbero confermarglielo».Che cosa ha ispirato questo romanzo?«Il racconto su un bambino scomparso che mia madre mi fece una volta in cui venne a trovarmi in Canada. Era una storia che diceva molto di come vivevano le donne in Nigeria negli anni Ottanta, quando sono cresciuta io, e anche di come in realtà fossero gli uomini a possedere i propri figli, soprattutto se maschi. Ci sono state molte donne che, dopo avere divorziato dai mariti, sono state costrette a consegnare i propri bambini all’ex marito e alla sua famiglia. Ma se devo essere sincera, la cosa che mi colpì di più, la volta in cui mia madre mi raccontò quella storia, fu la sua sorpresa di fronte alla mia rabbia per una violenza che, in quel contesto, veniva considerata da tutti perfettamente normale».Oggi le cose vanno meglio?«Quando ho iniziato a scrivere questo libro vivevo in Canada da un po’ e, da lì, mi ero fatta l’idea che le cose fossero cambiate parecchio rispetto al passato: per questo avevo deciso di ambientare la storia negli anni Settanta. Ora che sono tornata a volte mi chiedo se, invece che progredire, non siamo piuttosto regrediti, e mi riferisco alle relazioni uomini donne, alle divisioni di classe, alla violenza di genere».Perché, nell’edizione originale, il suo romanzo si intitola «Il figlio della casa» anche se la storia del bambino è minoritaria rispetto a quella delle due donne?«Aveva un intento ironico e voleva sottolineare il fatto che gli uomini sono sempre messi davanti rispetto alle donne. Ma devo ammettere che sono una frana con i titoli e questo in particolare ha suscitato molte reazioni: c’è chi lo ha definito “vetero-femminista"».Le due donne del romanzo sono, come lei, di etnia Igbo, una delle più numerose in Africa. Che cosa significa essere una donna Igbo nella Nigeria del 2022?«Sto ancora cercando di capirlo. Sono cresciuta nella Igboland, nel sud est della Nigeria, e ne vado molto fiera: questo libro è anche una mia dichiarazione d’amore per la mia terra. Ma nel contempo mi sono anche posta delle domande sulla nostra cultura: come ci stiamo evolvendo? Come possiamo diventare migliori? Gli Igbo sono persone resistenti, intraprendenti e interessate al progresso, qualunque cosa significhi questa parola. Per noi la comunità è altrettanto, se non più importante dell’individuo singolo. Questi sono i valori con cui sono cresciuta. D’altra parte però, è impossibile non tenere conto delle grandi disparità, a partire dalla cultura patrilineare. Se è l’uomo a portare avanti la Storia, il lignaggio e così via, che fine fa la donna? La nostra, che pure è una cultura che incoraggia la forza, l’ambizione e l’internazionalismo delle donne – basti pensare a Chimamanda Ngozi Adichie, alla direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio Kasi Okonjo-Iweala o anche a me -, allo stesso tempo ha ancora tutta una serie di vincoli e restrizioni poco accettabili».Lei è ambiziosa.«In Nigeria non è affatto un tabù per una donna dire di essere ambiziosa. Tuttavia, la famiglia deve sempre venire al primo posto. Voglio dire, per una donna va benissimo diventare presidente di banca, basta che ogni sera continui a servire la cena a suo marito. Potrei vincere il premio più grande del mondo come scrittrice, ma la gente continuerebbe a chiedermi se sono sposata».È ancora uno stigma non essere sposata e non avere figli?«Moltissimo».Anche in una città cosmopolita come Lagos?«Sì, anche perché a Lagos non c’è quasi nessuno che è originario di Lagos, la gente viene soprattutto dalle province. Il matrimonio è ancora tenuto in grandissima considerazione, magari meno che 40 o 50 anni fa, ma comunque tanto. Per dire, finché non ti sposi, tua madre ti chiama in continuazione per chiederti se hai conosciuto qualcuno, o se quel qualcuno ti abbia già chiesto di sposarlo, e cose così».Chimamanda Ngozi Adichie ha parlato del pericolo di un’unica storia, ovvero della fallacia del punto di vista unico.«È ciò che anche io ho cercato di dimostrare: il contesto conta, ma anche la storia singola conta. Spesso faccio l’esempio di una mia zia da parte di padre che, diversamente da quello che accade nel mio libro, ha divorziato dal marito ed è riuscita a portare i figli con sé, cosa che ha potuto fare grazie all’aiuto della famiglia da cui proveniva e alla propria personalità. Ma se una donna non ha tutti questi vantaggi, come potrebbe opporsi a certe “regole”? Esistono così tante storie, e così diverse tra loro».Come definirebbe la letteratura nigeriana di oggi?«Come la musica: vibrante, vivace, eccitante. Nonostante il calo dei lettori e la mancanza di soldi si sta facendo sempre più strada nel mondo. La Nigeria è un luogo molto interessante, pieno di storie, economiche, politiche, alimentari. Potrei scriverne una sul tragitto che faccio da casa fino all’ufficio: persone che conversano per strada, che si sono appena picchiate, che scendono dai diversi veicoli. Ovviamente, non saranno tutte storie positive. A volte noi scrittori veniamo accusati di scrivere storie troppo negative sulla Nigeria come se volessimo compiacere il cosiddetto white gaze (un ipotetico osservatore o lettore che si identifica come persona bianca, ndr). Ma per quanto mi riguarda non è così: come scrittrice posso soltanto parlare delle cose che vedo, che mi commuovono e che mi fanno nascere il bisogno di raccontare».Che cosa sta scrivendo, ora?«La storia di mio padre, un accademico che per anni era stato un alto funzionario pubblico. Lo scorso febbraio, a 84 anni, è stato ucciso da uomini armati mai identificati mentre stava tornando a casa a Oko, nello stato di Anambra. È una storia che avevo iniziato a scrivere tempo fa e che desidero finire nonostante le circostanze tragiche della sua morte. Non avrebbe senso non farlo per non parlare delle cose brutte che succedono nel nostro Paese». —