Tuttolibri, 12 novembre 2022
Un giardino pieno di fiori
Se è vero che l’inferno sono gli altri, come sosteneva Sartre, vuoi vedere che allora il paradiso siamo noi? Che l’Eden perduto possa essere ritrovato, magari stipato in un ricordo, nascosto in un odore dimenticato, nel colore di un fiore conosciuto nell’infanzia, in una vecchia casa di famiglia in cui forse non torneremo più per non gualcirne la memoria?
Quello, forse, è il nostro paradiso perduto eppure in qualche modo mai smarrito.
È questo, io credo, il senso bello e magico di Cronache dal paradiso, il nuovo libro di Serena Dandini che, con levità, ironia, poesia e tanta sincerità, ci apre la porta del suo paradiso personale, suggerendoci al tempo stesso che quel luogo esiste per ciascuno di noi e che, anche quando ci sentiamo sopraffatti dalle ombre del quotidiano, ci è sempre possibile accendere quella lucina di emergenza che alberga nelle cose più semplici e magari meno visibili.
E poco importa se i ricordi sono legati a un passato che non torna: nell’Eden evocato da Dandini il tempo è sempre presente e il futuro è un nastro che possiamo srotolare all’infinito. Certo, il paradiso terrestre è destinato a scomparire, altrimenti, come insegna il racconto biblico, la donna e l’uomo non mangerebbero il frutto proibito dall’albero della conoscenza (che poi, secondo Carlo Linneo, il più grande botanico del passato, era un banano…), non farebbero il loro ingresso nel tempo e nello spazio, non ci sarebbe il divenire della Storia. Insomma, suggerisce Serena Dandini, «senza la curiosità di Eva non ci sarebbe stato il mondo». Uscire dall’Eden, dunque, è un passo inevitabile e necessario come lo è uscire dall’infanzia, quel nucleo incandescente che continua ad arderci dentro per tutta la vita e a volte ci capita di non ascoltare più per pigrizia emotiva, per disattenzione, per artrite sentimentale.
L’infanzia dell’autrice, il suo paradiso perduto, ha la forma di una antica casa di campagna, il profumo dei fiori di un giardino incantato, il rossetto rosso della zia architetta (una delle prime in Italia), la noia di pomeriggi trascorsi ad aspettare che iniziasse qualcosa, l’attesa di poter mangiare il frutto proibito e dare avvio alle avventure dell’adolescenza. Una noia, uno stato di inattività che forse i bimbi d’oggi non conoscono perché a loro, purtroppo, non è dato di annoiarsi. Era, quello, un privilegio concesso a un’altra generazione che però oggi, dimenticando le prelibatezze della noia, preferisce soffocare i propri figli di stimoli, proposte e attività e organizzare loro un’agenda da dirigenti d’azienda.
Com’era bello invece perdersi nei pensieri, trascorrere da un sogno all’altro, sperimentare le lunghe ore di solitudine sottratte all’attenzione degli adulti.
Tutti ci meritiamo un angolo di paradiso. «Che l’Eden perduto sia reale o solo sognato poco conta; un chiringuito su una spiaggia remota, o il giardino segreto dell’infanzia: ognuno può immaginarsi un Paradiso su misura e decidere di spendere la vita per riconquistarlo», dice Serena Dandini. Insomma, se il diabolico si nasconde nei dettagli, il paradisiaco è spesso nelle cose più semplici, quelle che ci danno piacere e non sappiamo nemmeno per quale motivo. Heaven is a place on Earth, cantava Belinda Carlisle alla fine dei favolosi anni Ottanta. Per Claude Monet quel luogo era il laghetto di ninfee che per decenni sono state la sua ossessione pittorica. Per Fabrizio De Andrè era la sua amata terra in Gallura, per Ulisse il ricordo di Itaca sfuggente, per Vladimir Nabokov lo studio dei lepidotteri, per Agatha Christie la cura delle sue piante a Greenway House.
Io personalmente l’ho spesso trovato nelle pagine di un libro. «Al cielo non chiedo altro», pare abbia sentenziato Confucio, «che una casa piena di libri e un giardino pieno di fiori». Ma mentre sul primo punto sono stata abbondantemente esaudita il secondo rimane per me una chimera, dal momento che è eroicamente sopravvissuto alle mie cure solamente il potos che, come ricorda Serena Dandini, «è più facile da accudire che una pianta di plastica». Ma è proprio da lei, amante dei fiori e abile nell’arte della floricoltura, che arriva l’assoluzione anche per noi pollici neri, stirpe «nobilitata da personaggi insospettabili come il grande condottiero Alessandro Magno», autore di grandi conquiste e di altrettante sconfitte giardiniere. Non tutti i terreni sono fertili per le medesime colture, scopre l’autrice tra un trasloco e l’altro nel corso della vita. E non tutte le stagioni della vita sono adatte alla fioritura.
Eppure il tempo dei fiori è un momento dell’io: «fintanto che vivrò crederò nell’aprile, crederò nella primavera», scriveva Vita Sackville-West, poetessa e botanica inglese, intima di Virginia Woolf. La scrittrice, anche se al contrario di Alessandro Magno «non avrà conquistato un impero, sapeva di certo come prendersi cura di un tralcio di edera».