TuttoLibri, 12 novembre 2022
La scrittura di Bianciardi
La quantità, intanto. Tutto quello scrivere per campare, un mestiere quotidiano che possiamo facilmente immaginare compresso nei tempi, ossessionato dai ritardi, timoroso di non avere badato abbastanza al buon livello della scrittura, perché in fondo all’articolo, per quanto trascurabile sia la testata, o secondario l’argomento, o modesto il compenso, c’è pur sempre la propria firma. Si è quello che si scrive – se davvero si scrive. Il primo invito al lettore è, dunque, mettere sempre in rapporto la mole titanica del lavoro giornalistico di Bianciardi con la sua qualità: costantemente alta, oserei dire incredibilmente alta in proporzione al numero degli articoli e alla varietà degli argomenti.
Mettere in rapporto quantità e qualità, parlando di scrittura giornalistica, significa tenere bene a mente i modi di produzione, quasi sempre dettati dalla fretta, dalla cadenza della cronaca (tutt’altro che sincronica con i tempi larghi della scrittura letteraria), nonché influenzati dalla natura dozzinale di un prodotto «di massa», di rapido consumo, non destinato a rimanere: se non per esclusivo scrupolo dello scrivente, che non vuole lasciare tracce di mediocrità o di sciatteria. La cura scrupolosa della qualità, quando si scrive per un giornale, può essere d’impiccio. La tentazione di tirare via, di affidarsi ai luoghi comuni, alle comodità del preconfezionato, del già scritto e già letto, è costante: tanto ti pagano lo stesso, per dirla volgarmente. E dunque, se nel grande mucchio del lavoro di Bianciardi non troverete mediocrità e sciatteria, è per una ragione soltanto: lui era uno scrittore «naturale», lo era anche prima di pubblicare libri e di diventarlo per riconoscimento sociale. Non sarebbe stato capace di scrivere una sola riga senza che le sue parole gli assomigliassero e gli appartenessero, e questa mi pare, tutto sommato, la definizione più azzeccata di «scrittore».
Nell’epoca in cui scriveva Bianciardi, i giornali conservavano un prestigio e una visibilità oggi assai intaccati dalla rivoluzione tecnologica. La superfetazione delle parole, inevitabilmente, prima le ha fatte esondare dai loro contenitori classici, poi le ha sparpagliate ovunque, dando luogo a una specie di frastuono collettivo nel quale la voce dei giornali di carta è diventata appena una delle componenti, e forse non la più ascoltata. Voglio dire che il giornalismo «alto», l’elzevirismo in punta di penna, era a quei tempi una specie di professione specifica, molto ambita dagli intellettuali di ogni ordine e grado, gli scrittori per primi, ovviamente. Significava avere una cattedra importante, non accademica e molto esposta, e contare – oltre alle élite – su lettori numerosi e interessati, su grandi porzioni di ceto medio e avanguardie di popolo acculturato. I quotidiani maggiori superavano il mezzo milione di copie, pur conservando una compunzione e una misura quasi ottocentesche.
Ma di questo elzevirismo, di questo salire in cattedra, Bianciardi non fece parte. Neppure dopo che La vita agra lo ebbe consacrato scrittore, e di successo. Alla sua presenza, se non assidua abbastanza frequente, sulle riviste letterarie, affiancò invece una tumultuosa produzione giornalistica che oggi potremmo definire «pop», certo non destinata alla propria legittimazione intellettuale, piuttosto frutto evidente di una irrequietezza, forse di una impazienza, magari anche di un non facile rapportarsi con i vari gruppi di lavoro, che lo portarono a scrivere quasi ovunque. Per fare un esempio personale, conobbi la sua firma sul Guerin Sportivo, settimanale magnifico e irripetibile (ci scrivevano Brera, Soldati, Arpino) di «critica sportiva», di satira e molte altre cose. Formato grande, carta verde. Bianciardi teneva anche la rubrica delle lettere, con formidabili battibecchi, giudizi folgoranti sul calcio e lo sport così come sulla vita sociale nel suo insieme, idee politiche incoercibili: «La gente si dimentica che non bisogna picchiare Clay, e neanche Frazier; la gente si dimentica che bisogna picchiare dove fa più male, cioè addosso alla mafia e al capitalismo che la ispira».
Per un liceale dei primi anni Settanta quell’uso dell’italiano, e dei giornali, al tempo stesso colto e spregiudicato, diretto e raffinato, che mischiava politica e sport, Mao e Rivera, era pura seduzione. Che si potesse «dire tutto», all’epoca, non era poi così scontato. Lo era, naturalmente, per gli intellettuali, ma non lo era sui giornali popolari, men che meno in televisione. Nell’Italia del dopoguerra, e fino al Sessantotto (che in Italia accadde con un anno di ritardo, nel 1969), la libertà di pensiero non era a portata di mano, e leggere Bianciardi poteva essere una scoperta e un’avventura. Sì, se si era bravi si poteva anche «dire tutto»…
Come un marinaio che, pur di navigare, si imbarca su qualunque naviglio, Bianciardi scrive, tra il ’52 e il ’71, per un numero impressionante di testate italiane. Di formato, orientamento, livello così difformi da rendere molto difficile immaginare un percorso meditato, un calcolo professionale. Vale la pena elencarne alcune, in ordine sparso così come il lettore le ritroverà in questa poderosa raccolta, strutturata cronologicamente. La Gazzetta di Livorno, Belfagor, Avanti!, Il Contemporaneo, l’Unità, Il Giorno, Epoca, Grazia, Marie Claire, Le Ore, Kent, ABC, Playmen, Executive, L’Europeo, Guerin Sportivo, Il Mondo, Mondo operaio, Corriere della Sera, Corriere della Maremma, Corriere di Rapallo, Critica Sociale, Nuova Unità, Nuovi Argomenti, Historia, Lingua Nostra, L’Ombrone, Paragone, Letterature Moderne.
Grosso modo è possibile indicare, nel gran mucchio, tre categorie principali: i giornali di sinistra, all’epoca ancora molto connotabili perché (l’Unità, Avanti!) organi di partito; le riviste letterarie; i primi rotocalchi «erotici», con le donne nude, che in quell’Italia ebbero un ruolo non trascurabile di eterodossia e perfino di innovazione, affrontando temi, come il divorzio, l’aborto, la libertà sessuale, appena sfiorati nelle zone più presentabili delle edicole italiane. Vale la pena fare memoria a noi stessi che nel 1966, nella città di Milano, vennero prelevati dalla polizia, sottoposti a perquisizione corporale e infine mandati a processo tre studenti del liceo Parini di Milano, per avere affrontato sul loro giornalino scolastico, La zanzara, il tema «educazione sessuale», con toni e intenzioni che oggi passerebbero inosservati su qualunque bollettino parrocchiale. È (anche) in quella Italia che Bianciardi scriveva, e non è possibile apprezzare la libertà di giudizio, sua e di altri, se non la si inquadra in un contesto politicamente e culturalmente molto chiuso. Temo che gli italiani abbiano ormai perso memoria di quella rigidità, di quella cappa di conformismo – oltre che di tante altre cose. Lo scatenamento delle libertà, vere e presunte, sincere e indotte, è stato, dai Settanta in poi, così travolgente da cancellare molte, troppe tracce del nostro passato. Ed è un peccato, perché, tornando a Bianciardi, non ci può essere percezione di quanta intelligenza, quanto leggere, quanto scrivere fossero necessari, in quella Italia, per aprire lo sguardo, se non si rammenta che l’Italia era quella.
Lo stacco tra intellettuali e «comune sentire», all’epoca, doveva essere molto grande. Rileggere Bianciardi, oggi, significa anche confrontarsi con il resoconto a volte ilare, a volte feroce, a volte desolato, di quella distanza e, a conti fatti, di quella sensazione di isolamento e di solitudine. Specie nei suoi primi scritti, e sono passati già dieci anni dalla fine della guerra, l’odore del fascismo – della mentalità fascista – che non passa, è costante. Se dovessimo dare una definizione politica di Bianciardi (compito improbo), «antifascista» è forse la più inattaccabile. Prima di essere un antifascismo solidamente politico (Bianciardi fu azionista da giovane, poi, diciamo così, anarco-socialista, affine alla sinistra libertaria e meno ortodossa), il suo fu il tipico antifascismo dei colti, dei pensierosi e, direi, degli esteti: «Del fascismo mi offendeva la goffaggine pretenziosa di tutto l’apparato scenico costantemente tenuto in piedi, anche nei rapporti umani più semplici e comuni; il facile pavoneggiamento della parata; la truffa carnevalesca».
Si espresse contro il familismo («da noi, l’amore per la famiglia è la più stimata fra le virtù sociali, tanto che scarsa stima hanno sempre avuto fra noi quegli uomini che han sacrificato se stessi ed i propri cari per il bene di un più largo gruppo di loro simili»); contro la goliardia; contro la morale sessuale corrente («non bisogna istituire il divorzio, ma abolire il matrimonio»); ovvero contro i cardini culturali dell’Italia tradizionale, cattolica e conservatrice. E se, sicuramente, grande parte del suo essere di sinistra ebbe anche forti motivazioni sociali –i minatori della Maremma furono per lui un paradigma della condizione degli ultimi– l’impressione, rileggendo molte delle sue cose, è che il suo sguardo sull’Italia e gli italiani fosse influenzato, prima di tutto, da un sentimento di non appartenenza, culturale e psicologica ancora prima che politica. Un antitaliano, e non l’unico di quella leva di intellettuali acuti e combattivi usciti dal fascismo e dalla guerra.
L’ilare severità della sua critica televisiva sull’Avanti!, in questo senso, può fare testo: e stiamo parlando di quella RAI, oggi così rimpianta, che riuscì a tessere, sia pure con profondo paternalismo, la tela di un linguaggio popolare comune, educato anche foneticamente, in un Paese ancora gremito di analfabeti. Descrive le mitiche gemelle Kessler come «un reparto tedesco in ordine di marcia», ancorché «splendidi fenicotteri». Deride Perry Mason, l’avvocato americano allora oggetto di sconfinata popolarità grazie a una delle prime serie di telefilm. Parla con distaccata stanchezza di quelli che sono, oggi, i più celebrati varietà televisivi del tempo. Ma non risparmia i vezzi e le debolezze della nostra rive gauche, di quel mondo intellettuale del quale è parte e dal quale, al tempo stesso, è in costante fuga. Irresistibile il suo giudizio su un’intervista a Valeria Ciangottini, sulla cresta dell’onda dopo il successo, travagliato ma clamoroso, della Dolce vita di Fellini: «Il dramma d’una giovane donna che ha tante cose da dire, ma non le dice. E ci saranno critici pronti a garantirci la profondità del sottaciuto. Ne parlerà la stampa specializzata, specialmente in Francia». Folgorante e anche esilarante, diremmo in perfetto stile Flaiano, non fosse che è, invece, lo stile Bianciardi.
Detto del malessere per la permanenza, negli italiani del dopoguerra e del boom, di tanti, troppi loro connotati irrimediabili, dal fascismo «psicologico» al familismo soffocante, forse colpisce ancora di più il presentimento che qualcosa di storto, di guasto, stia mettendo radici. Lo sviluppo economico non porta con sé la liberazione sognata, e anzi genera nuovi turbamenti e nuove incrinature (un film come Il sorpasso potrebbe fare da quinta ideale a molte pagine di Bianciardi). Sentite qui: «La nevrosi è un lusso consentito in tempi e a persone che hanno già soddisfatto i bisogni immediati del sopravvivere quotidiano. Cioè, quando la gente mangia ogni giorno (o addirittura non mangia, ma per dimagrire), allora può anche permettersi di aver paura, di scegliere le misure –magiche, in fondo– occorrenti a garantirsi l’immunità di qualche cosa». Sono righe scritte in occasione della campagna di vaccinazione di massa contro il vaiolo. Già si parla dell’Italia come di una società benestante e viziata, e siamo appena all’inizio dei Sessanta. C’è quasi un anticipo di Fruttero&Lucentini, saltando a pie’ pari Pasolini. Non ci si infuria e non si maledice, piuttosto ci si immalinconisce e, per rimedio, si scrive.
Bianciardi morirà molto presto, troppo, nel novembre del 1971, minato dall’alcol e da una vita senza risparmio, turbolenta e autodistruttiva. Rileggerlo oggi significa, inevitabilmente, immaginare che cosa avrebbe potuto pensare, e scrivere, di quanto accadde dopo. Non molto dopo. Gli anni della violenza politica, per esempio, ma anche della grande ribellione contro l’Italia dei Padri, della liberazione sessuale, del divorzio, del femminismo. E poi, soprattutto, gli anni Ottanta, la grande rivincita della spensieratezza e, per contagio, della superficialità, il trionfo planetario del consumismo e del mercato come regolatori della vita quotidiana e della politica. Ci sarebbero voluti almeno un altro paio di decenni di Bianciardi e con Bianciardi. Possiamo solamente immaginarli. Ha lasciato un vuoto che nemmeno questa montagna di articoli può colmare: e anzi, lo ingigantisce.—