La Lettura, 12 novembre 2022
I mondiali e i goal
Cominciano domenica 20 novembre i nuovi Mondiali di calcio. Saranno i ventiduesimi. Non sono i primi che si giocano d’inverno. Sono i primi che dividono in due la stagione del calcio europeo, ma d’inverno si è giocato spesso, fin dall’inizio, nel 1930 a Montevideo. Era luglio, ma eravamo nell’altra parte della Terra, quindi a stagioni invertite.
Fino al 1970 i Mondiali si chiamavano Coppa Jules Rimet, dal nome dell’avvocato borgognone che li aveva ideati. La coppa era d’oro massiccio, questo ha favorito molti suoi guai. Durante la guerra, nel 1943, il presidente federale Ottorino Barassi la nascose in casa dentro una scatola di scarpe sapendo che gli occupanti tedeschi la stavano cercando. La Coppa era in Italia perché l’Italia era campione del mondo in carica, ma lo sapevano anche i ladri. Barassi la spedì allora a Torremaggiore, un paese in provincia di Foggia, da due suoi parenti che la nascosero in un fusto pieno di olio d’oliva. Ma non era finita. La Coppa tornò a girare il mondo, nel 1966 i Mondiali entravano per la prima volta in Inghilterra. Fu organizzata una mostra con esposizione della Coppa quattro mesi prima dell’inizio, ma un 27 marzo la porta si aprì sul niente. La coppa era sparita. Figuraccia inglese a livello mondiale, centinaia di poliziotti in giro per il Paese a cercarla, poi una mattina, la ritrovò Pickles, un giovane cane meticcio durante la passeggiata mattutina. Gli dettero un premio di seimila sterline.
Ma i Mondiali erano diventati ormai un simbolo globale, i ladri migliori del mondo decisero che dovevano avere quella coppa anche solo per una questione di orgoglio. Alla fine qualcuno riuscì a rubarla davvero, in Brasile, quattro anni dopo. La Coppa da allora è scomparsa, chi vince il mondiale ha diritto a una coppa ma diversa. Della vecchia Rimet è rimasta in giro solo una riproduzione doverosamente offerta dai brasiliani.
Il mondiale aggiorna il calcio ogni quattro anni. Per un giocatore non è un compimento di carriera, è una vita a parte. Se lo giochi bene, se fai cose importanti, cambi dimensione perché diventi di tutti, ma proprio tutti. Sei celebre nel modo più rumoroso ed elegante, non sarai più dimenticato, anzi ricordato e replicato.
Paolo Rossi ha segnato 105 gol in serie A, ma contano i sei fatti in Spagna nel 1982, soprattutto i tre segnati al Brasile. Maradona è stato infinito, ma la sua impresa più grande è stato il gol segnato all’Inghilterra nel 1986 scartando sei avversari. Al contrario il limite di Lionel Messi è che non ha mai inciso in un mondiale. Ha fatto tutto, ma non quello. Forse avrà tempo adesso.
Ai Mondiali i gol, più che contati, vanno pesati. Non è necessario segnare troppo, basta farlo nel momento in cui serve. E con il giusto fascino. Poche volte chi ha vinto la classifica dei marcatori ha vinto anche il mondiale, sono due cose diverse. Spesso si segna molto durante i gironi, contro avversari facili. Sono gol che fanno vincere una partita, non un torneo.
Segnare in una finale è complesso. Le due squadre si studiano molto, non rischiano niente, questo abbassa il ritmo del gioco, fa diventare tutto più prevedibile. Poche volte una finale è spettacolare. Cioè, lo è sempre per l’importanza del risultato, meno dal punto di vista tecnico.
In ventuno finali sono stati segnati 77 gol. Sessantaquattro giocatori hanno fatto un gol. Pelé, Vavá, Hurst e Zidane sono andati molto più in là, tre gol a testa. Solo nove gli italiani che hanno segnato in finale: due volte Piola e Colaussi, una volta Orsi, Schiavio, Boninsegna, Rossi, Tardelli, Altobelli, Materazzi. Questo racconta il valore di quei gol, la loro rarità. Per capire, Cristiano Ronaldo ha segnato ai Mondiali appena 7 reti, Bobo Vieri 9, uno più di Maradona. Tutti grandi giocatori ma tutti gol di peso diverso.
Forse non è nemmeno giusto tenere il conto, ognuno di noi vede qualcosa di diverso dietro ogni gol. Mio padre era affascinato da Just Fontaine, il centravanti della Francia nel 1958 in Svezia. Era di origini marocchine, sembrava uscito da un libro di Camus, era il vecchio e il nuovo, sapeva di bistrot. Segnò tredici reti, nessuno altro ha mai più fatto tanti gol in un mondiale. Era l’anno in cui apparve Pelé e segnò alla Svezia in finale, facendo passare la palla sopra la testa del difensore e calciandola al volo in porta.
Ma l’attaccante ad aver segnato di più nella storia dei Mondiali è un signore grigio e flessibile, tredici anni nella nazionale tedesca, quattro Mondiali alle spalle, uno vinto.
Si chiama Miroslav Klose, ha giocato nella Lazio, è di un paese polacco di lingua tedesca, non è stato mai spettacolare, ma ha segnato sempre, 339 reti alla fine di 880 partite. Ai Mondiali ha il record di gol, 19. Tanto per dare una dimensione, Baggio ne ha segnati 9 in tutto, Del Piero 6.
E pensare che all’inizio del calcio il gol non era nemmeno previsto. Nelle università inglesi lo scopo del gioco era portare con i piedi il pallone oltre il confine del prato saltando tutti gli avversari. Non c’erano porte né quindi portieri. Una prima variazione fu aprire piccoli spazi in mezzo alle siepi, vinceva chi mandava il pallone esattamente lì. In qualche scuola pubblica le aperture nel campo erano quattro, due in fondo e due di lato. Ma si capì presto che si creava troppa confusione.
Il concetto di gol cambiò in compenso interamente il senso del gioco. Da essere corsa libera, diventò corsa con una direzione. Si andava verso la porta. Si scattava, si sterzava, ci si fermava e poi da capo. Tutto cominciò così. I Mondiali arrivarono ottant’anni dopo.