La Lettura, 12 novembre 2022
L’Italia che mise ko l’America
«Paese mio che stai sulla collina…/ Paese mio ti lascio, io vado via…».
Quante storie racchiudono questi versi di Franco Migliacci. Queste sono le cinque storie di una donna e quattro uomini che arrivano da piccoli paesi dell’Abruzzo e conquistano l’America. Le racconta Massimo Cutò in un sottile libro: Fortissimi. Uomini e donne sul ring della vita pubblicato da Ianieri Edizioni.
Sì, c’entrano la lotta, il pugilato, il wrestling ma fuori dal ring c’è la grande storia di un Paese, questa volta con la maiuscola, e delle sue svolte: povertà e fuga, emigrazione e riscatto, pregiudizio e orgoglio.
Ecco i nostri eroi che servono a pretesto per raccontare un pezzetto della nostra storia.
Michele «Baron» Leone, nato a Pettorano sul Gizio (L’Aquila) nel 1909. In America diventa Michele «il cattivo», un wrestler hell, ufficialmente una canaglia che infrange le regole, gioca sporco, non rispetta l’avversario e provoca il pubblico con urla e slogan offensivi. È una finzione scenica, quella che gli americani chiamano gimmik e consiste nel creare una maschera addosso all’atleta. Ma Michele è una pasta d’uomo. Continuerà a combattere e resterà sé stesso comunque sempre vincitore. I divi di Hollywood, a cominciare da Bob Hope, sono in prima fila alle sue esibizioni. Molti anni dopo Lou Ferrigno, l’incredibile Hulk della serie tv, racconterà di averlo considerato il suo mito fin da bambino.
Rocky Marciano, vero nome Rocco Marchegiano, nato a Brockton nel 1923 ma abruzzese di sangue: il padre veniva da Ripa Teatina (Chieti). E dopo aver letto titoli di giornali dedicati a lui, «il più grande pugile di tutti i tempi», tornerà al paese suo, la terra del padre, su una Fiat 125 rossa. Per mangiare finalmente la porchetta di cui aveva tanto sentito parlare.
Bruno Sammartino, nato a Pizzoferrato (Chieti) nel 1935. In America diventa T he original Italian stallion, il più grande campione nella storia del wrestling. E pensare che quando sbarcò lo accolsero, gracile e italiano com’era, chiamandolo Dago, con disprezzo perché Dago stava per dagger, pugnale, a sottolineare lo stereotipo negativo appiccicato ai «mangiaspaghetti», quelli svelti con il coltello in mano.
Rocco Mattioli, nato anche lui a Ripa Teatina nel 1953. La fortuna l’ha cominciata in Australia. Per capirlo basta guardare le sue mani di boxeur. No, non c’entra come sono conciate dopo tante botte date (e prese). C’entra che cosa c’è tatuato sulle dita. Love sulla mano destra. Hate sulla sinistra. Amore e odio. Forse il solo modo di sopravvivere per chi sale sul ring. Dello sport e della vita.
Monica Passeri, nata a Caprara (Pescara) nel 1992. La prima italiana nel circuito americano della lotta professionistica. A 24 anni è entrata nella World Wrestling Entertainment, la federazione che schiera i campioni. Sul ring si presenta come The Italian bombshell, la bomba italiana. Poi urla: Italians do it better. A quel punto lo speaker annuncia: «Miss Monica from the Abruzzi».
Ma il bello vero di questo piccolo libro deve ancora venire. Bisogna tornare indietro: il bello è la prima parte, una raffica di sorprese. Apparentemente dedicate alle meraviglie della forza fisica. In realtà un trattatello sociologico che gira attorno all’affermazione sociale di un popolo considerato debole.
Tipo: anno 1911, si gira ai Parioli, a Roma, il film Quo vadis? di Enrico Guazzoni. Un omone romano sulla trentina, Bruto Castellani, interpreta l’invincibile Ursus. La pellicola finisce alla Royal Albert Hall, presente Giorgio V, la regina si complimenta con Castellani chiamandolo Ursus e sarà Ursus per sempre.
Nel 1914 Gabriele d’Annunzio ribattezza un ruvido camallo (scaricatore di porto) genovese «Maciste». Con quel nome diventerà una star del cinema.
Massimo Cutò si fa prendere dall’enfasi e… «E poi arrivò Alfredo Boccolini, funambolo genovese, taglia atletica mirabile: diventò Galaor, giustiziere in celluloide. Arruolato dalla cinematografia austriaca, furoreggiò anche come Sansone: neppure la zampata di un leone vero lo scalfì, mentre girava una scena ardimentosa nello zoo di Budapest».
Ma torniamo a Maciste. Si chiamava Bartolomeo Pagano, il camallo. E la sua fama durò abbastanza. Dopo aver scaricato (per davvero) sacchi e sacchi sulle banchine del porto, cominciò a spezzare le (più leggere) catene di schiavo nel film Cabiria (1914).
Spiega l’autore del libro: «Maciste diventò protagonista di una lunga serie autonoma, in Maciste alpino del 1916 sbatteva via, combattendo a torso nudo sulle Alpi, gli austriaci lanciandoli in aria come fuscelli. E nei panni di Maciste all’inferno, film del 1926, strapazzava i diavoli tra fondali di cartapesta. Impressionando in maniera indelebile la fantasia di un bambino che assisteva stupito e ammirato alla proiezione, nel buio del cinema Fulgor a Rimini: il piccolo spettatore si chiamava Federico Fellini».