La Lettura, 12 novembre 2022
I Mondadori, storia di una famiglia
Si intitola Verità di famiglia, ma avrebbe potuto essere L’ombra di Arnoldo. Perché la vita di Alberto Mondadori, protagonista di questo sinuoso romanzo biografico, si sviluppa interamente all’ombra del padre, ovvero sotto l’egida – via via severa, sferzante, soccorrevole, dispettosa, sorniona, sempre comunque implacabile – del fondatore della casa madre. L’autore è Sebastiano Mondadori, figlio di Nicoletta, figlia di Alberto, e Verità di famiglia (La nave di Teseo) nasce dalla sua lunga ammirazione del mito. Tutto è mito, in nonno Alberto, anche gli enormi difetti, e perciò a onore del vero nulla viene risparmiato allo «splendido sovversivo idealista». In primo luogo, il fatto di chiedere continuamente i soldi al padre «per ribellarsi al suo dominio». Un paradosso che si ripropone per anni, da quando il ragazzo Alberto a Roma cerca di farsi strada nel cinema fino agli anni del Saggiatore, la casa editrice che fondò nel 1958.
In realtà il sognatore Alberto, primogenito ed erede designato alla guida del colosso editoriale, gigante dai grossi baffi, eleganza alla Clark Gable, dandy malinconico, non ce la farà mai a costruire il proprio sogno, e a ogni tracollo dovrà ricorrere a papà (e sottobanco a mamma Andreina) come fosse un adolescente. È un «andirivieni», scrive Sebastiano. Ecco il perché della sinuosità di questo libro, il cui andamento – tra suggestive descrizioni ambientali (Venezia, Milano, la villa dei nonni a Meina, Camaiore e le colline toscane eccetera), divagazioni, concessioni liriche, zoomate nella mondanità e negli interni domestici sempre prestigiosi, ritratti dei protagonisti della cultura e del jet set, storie inimmaginabili (come quella di Libera, la domestica di casa) – mima il corso ondulatorio della vita (e della mente) di Alberto. Un’altalena tra megalomania hollywoodiana, spavalderia e fragilità, imprevedibilità, spreco e precipizio, esaltazione, depressione, autodistruzione da whisky, vera tragedia di un uomo a suo modo geniale (e che non nega di esserlo). La scena della morte per infarto in una cabina telefonica della Laguna è impressionante.
Dunque, geniale? Basta dare un’occhiata al catalogo del Saggiatore. E leggere alle pagine 119 e 120 l’elogio del nipote teso a correggere la definizione riduttiva di «grande dilettante» come lo definì, benevolmente, l’amico Vittorio Sereni. Dilettante? Sì, nel senso che era la passione ad accenderlo. Con che risultati? Al nome di Alberto si lega la nascita, nel ’39, del settimanale «Tempo», dove pubblicherà i suoi reportage di guerra maturando il sogno del giornalismo, ripreso nel ’50 con la creazione di «Epoca». Tutto sotto lo sguardo di papà Arnoldo. Entrato in Mondadori nel 1942 e divenuto direttore editoriale nell’aprile 1943, Alberto nell’esilio svizzero elabora un ambizioso progetto, in gran parte di impianto saggistico, per la Nuova Italia del dopoguerra. È soprattutto un manifesto laico illuminista di maestoso afflato morale e civile, con cui, scrive Sebastiano, «dichiara guerra al padre». Sempre lui. Un padre che non poteva approvare tanto spericolato progressismo pensato con l’illusione di educare le masse ma in definitiva elitario.
Fatto sta che nei primi anni Cinquanta, ideata la «Medusa degli Italiani», Alberto promuove per Mondadori l’acquisizione di numerosi e importanti autori anche stranieri (di cui giustamente il libro non ci risparmia gli elenchi). Ma in editoria il rischio peggiore è esagerare: e la prudenza di Arnoldo era passata al secondo figlio, Giorgio, oculato amministratore, meno fantasioso di Alberto, in cui l’eccesso finirà per castigare l’intuizione e lo slancio di generosità. Che Alberto fosse generoso, non c’è dubbio, ma teneva in serbo anche una dose di ingratitudine spietata, come quella che gli suggerì di scaricare dall’oggi al domani il suo amico fraterno (e braccio destro al Saggiatore) Giacomo Debenedetti, il curatore della collana più bella, le «Silerchie», e critico geniale che già era stato «bocciato» inspiegabilmente dall’università. Eppure grazie al povero Giacomino, nel 1957 il poeta Alberto ottenne una immeritata vittoria al Viareggio (ex aequo con Pasolini e Penna). Lo stesso accade con altri amici, sedotti, amati e abbandonati. Uno tra i tanti è Sereni, con il quale aveva ideato gli «Oscar», la collana di tascabili che avrebbe conteso il primato alla Bur.
Gli intellettuali e gli scrittori di cui si circondò Alberto non si contano (le fotografie nel libro lo testimoniano). Lo troviamo da ragazzo al Vittoriale di d’Annunzio, poi con Mario Monicelli (suo cugino) e Lattuada, ma anche con Faulkner, con Thomas Mann, con Sartre e Simone de Beauvoir, con i poeti, Ungaretti, Montale, Quasimodo, con Palazzeschi e con il sodale Zavattini, con il filosofo Enzo Paci e con il fedelissimo Remo Cantoni, con gli artisti, a cominciare da Guttuso... Pagine molto belle raccontano una strana serata con Hemingway a Cortina. Ma non si contano neppure i tagli netti, con cui forse Alberto compensava l’incapacità di tagliare per sempre con suo padre.
Così forse si spiega anche la mancata rottura con sua moglie Virginia Barella, adorata da Arnoldo: una donna di grande fascino, con la quale a un certo punto si instaura, nonostante i tre figli, una «rispettosa estraneità», lei innamorata persa di Cesare Garboli, lui in giro per il mondo con Maria Laura Boselli, suo braccio destro. Non si renderebbe giustizia al libro di Sebastiano Mondadori senza considerare il rapporto tra raffinato equilibrio costruttivo e necessità sentimentale, condensata in una frase che incontriamo verso la fine, in uno dei corsivi di riflessione interiore che spezzano il ritmo narrativo, in cui l’autore ammette: «È suo il fantasma che non smetto di inseguire mentre cerco di riscriverlo».