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 2022  novembre 12 Sabato calendario

Parlando di Orwell


La crisi, la guerra, l’emergenza climatica e la minaccia atomica, i limiti della scienza e l’illusione di un sapere sempre alla portata di tutti. Che cosa deve fare uno scrittore davanti a un mondo che sembra ogni giorno sfidarlo a lavorare sull’orlo di un abisso? Qual è il confine tra l’impegno di non distogliere lo sguardo da ciò che accade e la libertà dell’immaginazione? «La Lettura» ha messo a confronto due scrittori di generazioni diverse ma con lo stesso sguardo lucido sul presente: Paolo Giordano, 40 anni il prossimo mese, da poco in libreria con il romanzo Tasmania, che rifrange la crisi privata del protagonista nel caos di un’epoca in cui tutto cambia (sarà presentato a BookCity), e Ian McEwan, 74 anni, uno dei grandi maestri della letteratura contemporanea che, in attesa del nuovo romanzo Lessons, in uscita in Italia a marzo, al tema dell’engagement e della libertà di chi crea ha dedicato il saggio Lo spazio dell’immaginazione. Lo scrittore inglese prende spunto dal saggio Nel ventre della balena di George Orwell, scrittore engagé per eccellenza, antifascista combattente nella guerra di Spagna, capace di riconoscere la necessità di quello spazio buio e imbottito che, separando lo scrittore dal mondo esterno, consente di mantenere un atteggiamento di distacco qualunque cosa succeda, fertile per la creazione.
Che cosa significa oggi la parola impegno per uno scrittore?
IAN McEWAN – Noi scrittori ci muoviamo su questa linea molto precaria fatta di impulsi opposti, assolutamente non conciliabili. Molti, in quanto esseri pensanti, sono giustamente preoccupati dello stato del mondo, della politica, dell’azione dei governi. Alcuni abbracciano questo tipo di realtà e ne fanno l’oggetto della loro narrativa. Ma siamo tutti consapevoli dei pericoli che si possono annidare nella scrittura impegnata e di quanto possa mettere a rischio la necessaria libertà dello scrittore. Orwell è l’autore di due romanzi politici di grande successo, 1984 e La fattoria degli animali, e allo stesso tempo celebra l’infinita libertà di cui gode uno scrittore non impegnato come Henry Miller. La potentissima immagine che Orwell usa è appunto il «ventre della balena», luogo in cui lo scrittore può lavorare completamente isolato dal rumore esterno. Orwell incarna esattamente questo conflitto perché è autore di scritti politici di straordinaria efficacia e allo stesso è un uomo pragmatico, capace di isolarsi dal resto del mondo. Io sono molto convinto dell’idea che sia una tensione senza soluzione. L’illusione che questo conflitto possa essere risolto va lasciata alle spalle perché è proprio lì che nasce il lavoro di uno scrittore. Tutti siamo chiamati a camminare in equilibrio su questa fune. Possiamo scrivere di un matrimonio infelice, di un’infanzia difficile, di una storia d’amore senza alcun riferimento al mondo esterno. Quello che gli scrittori devono imparare è non dire che cosa si deve fare. Io detesto questo impulso al manifesto: bisogna accettare il fatto che il romanzo è una forma ricca, varia. La pluralità delle voci è la cosa interessante.
PAOLO GIORDANO – Sono completamente d’accordo con te, sono questioni che non hanno una soluzione. Ogni scrittore sa, quasi per istinto, che ci sono cose a cui non si può dare una risposta unica e che tuttavia occupano gran parte dei suoi pensieri. Almeno per me è così, e questo è il motivo, credo, per cui sono sempre desideroso di incontrare altri scrittori che affrontano questi temi. A volte trovo conferme a ciò che penso, altre volte una voce diversa. Anche Ian nelle ultime pagine del suo saggio fa una sorta di lista di possibili posizioni a riguardo: tutte sono legittime e tutte possono portare a un’ottima letteratura. In generale credo che l’impegno, l’engagement, sia in qualche modo un ideale illusorio e che potrei dare risposte diverse a seconda dei momenti. Per me la forma più vicina all’impegno a cui posso pensare è quella di essere uno strumento di misura. Misurare ciò che sento riguardo a ciò che succede attorno a me e cercare di farlo con la massima accuratezza possibile, come un calibro. È l’obiettivo massimo a cui posso pensare. Tutto ciò che va oltre mi pare più una dichiarazione sul mondo, una presa di posizione a priori e credo che questo sia uno dei pericoli del presente. Viviamo in un mondo molto polarizzato e c’è una continua pressione perché si dica con precisione da che parte si sta su ogni possibile argomento. Ma questo non ha nulla a che vedere con lo scrivere un romanzo, almeno per me. Quando scrivo è come se sentissi delle vibrazioni, se risuonassi con le cose, perso nei dubbi. Orwell era immerso in questi pensieri in tempi molto diversi da oggi e sentiva come una minaccia il fatto di diventare parte di una certa ortodossia del pensiero, di essere concentrato più sull’affermare a che cosa si appartiene che essere aperto alla creazione.
Oggi chiunque si sente chiamato a una presa di posizione sull’invasione russa dell’Ucraina, su questa guerra nel cuore dell’Europa. Estremizzando, oggi Orwell andrebbe a combattere per l’Ucraina?
IAN McEWAN – Se noi prendiamo l’atteggiamento di Orwell rispetto alla guerra civile spagnola e la estendiamo alla situazione presente la risposta non può che essere sì. Sì, sarebbe partito: aveva competenze e capacità militari, era un uomo pratico e se fosse stato abbastanza giovane immagino che lo avrebbe fatto. Oltretutto siamo ancora in una situazione in cui, diciamolo, è la Russia a essere problematica, come allora per Orwell: la Russia che è sempre stata in qualche modo un nodo in sé, storicamente troppo centralizzata, troppo inefficiente, troppo ideologica per riuscire a funzionare in modo aperto e che, ancora una volta, tende a diventare uno Stato autocratico e quasi fascista. Ma la questione se io in questa situazione possa trovare l’ispirazione per un romanzo è tutta un’altra cosa. Sono d’accordo con Paolo: c’è una differenza tra quello che noi diciamo a livello politico in pubblico e quello che avviene nel nostro studio. Ma non dobbiamo dimenticare che la libertà di cui godiamo quando scriviamo è calata all’interno di circostanze politiche e noi dobbiamo godere di questa libertà in privato e dobbiamo difenderla in pubblico. Sulla guerra sento che non abbiamo scelta, non possiamo consentire che la Russia distrugga un Paese che sicuramente era lontano dalla perfezione, aveva grossi problemi di corruzione, ma che si stava avviando verso un percorso di democrazia liberale e di libertà dei suoi cittadini. Se lasciamo che questo avvenga sappiamo quali sono le conseguenze, abbiamo visto le immagini dei villaggi liberati dopo l’occupazione della Russia: donne anziane uccise mentre stavano lavando i piatti in cucina. Se noi permettiamo che questa situazione prosegua arriverà il momento in cui dovremo preoccuparci della Moldavia e poi dell’Europa centrale. Però, soprattutto nel pensiero degli intellettuali, c’è sempre questo retaggio della guerra fredda: se la Cia è a favore di qualcosa noi dobbiamo essere contro, se il governo americano disprezza il regime russo allora ci deve essere qualcosa di buono in questo regime. Un pensiero binario da cui ci dobbiamo assolutamente affrancare, tornando ai principi di base perché la libertà di cui noi godiamo nel nostro studio si mantiene politicamente e culturalmente.
PAOLO GIORDANO – Credo che l’invasione dell’Ucraina, in Italia, forse in misura minore in Gran Bretagna, abbia creato una polarizzazione, anche in territori che avrebbero dovuto essere più compatti nella risposta, e abbia mostrato tutte le contraddizioni in cui siamo immersi, un po’ come dici tu Ian a proposito di questo vecchio sentimento antiamericano che ancora serpeggia. Personalmente non ho dubbi su quale parte difendere o sulla posizione che il nostro governo dovrebbe tenere. È chiaro che questo non porta necessariamente a fare buona letteratura, a essere un buon scrittore. Anzi, forse è addirittura il contrario: quando sei così convinto di qualcosa, quando sei talmente arrabbiato per una certa situazione che la rabbia ti rende troppo fiducioso nella bontà delle tue idee, ecco, probabilmente non sei nel posto migliore per fare letteratura. Quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina io ero quasi a metà del romanzo, ciò che è successo ha mandato in crisi tutto, come se non avesse più senso neppure scrivere. Per una decina di giorni ho davvero pensato all’ipotesi di andarci, ma certo più che una reazione da scrittore è stata una reazione da essere umano, da cittadino. Naturalmente non ho alcuna esperienza militare, neppure come reporter di guerra, e la mia presenza sarebbe stata semplicemente un fastidio. Quindi l’idea mi è sembrata subito eccentrica: meglio cercare di fare le poche cose che si potevano fare da qui, cioè quasi nulla. A un certo punto comunque ho dovuto decidere di entrare nel ventre della balena: chiudere i social, smettere di guardare le notizie, isolarmi per poter scrivere.
Uno dei grandi temi del presente, eminentemente politico, è quello dei cambiamenti climatici che Paolo Giordano mette al centro di «Tasmania», con tutte le sue contraddizioni. Il romanzo inizia proprio a Parigi nel 2015, con il protagonista alla Conferenza del clima.
IAN McEWAN – È una preoccupazione centrale perché possiamo essere da soli nel nostro studio a scrivere, ma non possiamo ignorare il fatto che quando usciamo di casa il clima è completamente cambiato. Soltanto adesso iniziamo a capire quanto stia incidendo sulle nostre vite. Ed è per questo che nel mio saggio uso la metafora della balena arenata sulla spiaggia, in stato di putrefazione, con lo scrittore ormai protetto solo da uno scheletro. Non possiamo sfuggire a questa situazione ma si pone la questione di come scriverne. Negli Stati Uniti il genere sta avendo molto successo e ci sono autori come Kim Stanley Robinson che gli dedicano molta attenzione, ma sono classificati come autori di fantascienza. Il paradosso è che il cambiamento climatico è realtà. Quindi la domanda è come fare per affrontare questo tema. Si può prendere la strada della distopia, come molti, da Cormac McCarthy in avanti: mondi in rovina, civiltà distrutte, guerre e lotte per accaparrarsi le poche risorse del pianeta. L’effetto di questo tipo di narrativa è che può paralizzare o spingere all’azione. Un’altra strada è imbastire romanzi eroici in cui si cerca di risolvere il problema attraverso la tecnologia o attraverso un’azione concertata di tutta la popolazione e anche qui c’è un aspetto di irrealtà. Come modello mi viene in mente John Steinbeck: con Furore dove ha saputo rendere il degrado ambientale e sociale seguito al periodo delle dust balls, le tempeste di sabbia causate da tecniche agricole non adatte che hanno distrutto tantissimi campi causando una povertà immensa. Del cambiamento climatico ho cercato di scrivere in Solar e se oggi dovessi scrivere dell’Ucraina ho le idee abbastanza chiare su come costruire il racconto, probabilmente dal punto di vista di un villaggio occupato dai russi distrutto e poi liberato dagli ucraini con la desolazione che ne consegue. Il tema è sempre quale obiettivo ci prefiggiamo.
A un certo punto in «Tasmania» il narratore riflette sul fatto che quello dell’ambiente è un argomento noioso, «lento, privo di azione e di tragedia, sovraccarico di buone intenzioni».
IAN McEWAN – Paolo lo illustra molto bene, a giudicare dagli estratti tradotti che ho potuto leggere. Il protagonista, alla conferenza per il clima di Parigi, vaga tra gli espositori totalmente oppresso dai fatti e dai dettagli. Dobbiamo prenderci la libertà di dire, anche se non piacerà agli attivisti, che davvero è un tema un po’ noioso, riuscire a conoscere tutti i dettagli che compongono la materia è come scalare una montagna. Ci sono moltissime variabili, che si tratti dello scioglimento dei ghiacci, della devastazione ecologica e dell’interazione con il progressivo cambiamento della temperatura. Mia nuora lavora per la British Antarctic e la sua professione consiste nel fornire modelli matematici per lo scioglimento dei ghiacciai in Antartide: ci sono soltanto due o tre variabili, ma calcolarne l’effetto nel tempo è di una difficoltà infinita. La complessità del tema tuttavia lo rende estremamente attraente per gli scrittori, perché i cambiamenti climatici invadono il nostro campo, ma anche noi invadiamo il campo del clima.
PAOLO GIORDANO – Sì, di fatto stiamo combattendo contro curve matematiche, sappiamo che tutto è cominciato con la curva delle emissioni di CO2 e per anni c’è stato un feroce dibattito sul fatto se la curva fosse corretta, se fosse manipolata. Ora gli scienziati sono tutti d’accordo che ci sia un grosso problema, che sta accelerando. Abbiamo degli scenari, ma è molto difficile far corrispondere agli scenari un’immagine vera di quel che succederà, e ancora più difficile è credere a quell’immagine. In un certo senso, i cambiamenti climatici sono ancora una completa astrazione: certo, qui in Italia abbiamo avuto un’estate molto calda e siccitosa, tutti ce ne siamo accorti, ma questi eventi singoli non restituiscono mai la totalità della crisi. C’è la sfida che ha lanciato Amitav Ghosh riguardo alla cecità su questi temi e anche Ian ovviamente la mette a fuoco. È un tema complesso, divisivo, che si muove veloce, ma per l’arco di vita di una persona, che poi è la durata di un romanzo e di una storia, è comunque troppo lento. Credo che i cambiamenti climatici siano il tipico argomento da cui uno scrittore cerca di stare lontano quando inizia a scrivere. La guerra è brutale, paralizzante, ma decisamente più fertile per chi fa questo lavoro. Io per anni ho pensato a come scrivere del clima e c’è un’idea che sono riuscito a mettere a fuoco, parlando con gli scienziati, e cioè i tipping point, punti di non ritorno in cui qualcosa che si sta lentamente deteriorando peggiora di colpo, con un break down, un collasso. E questa è un’idea comune per gli scienziati, meno per noi credo, è come se fossimo in un mondo che si muove più gradualmente. Ma una volta che capisci questo, allora riesci in qualche modo a costruire qualcosa, attraverso metafore, analogie, storie di persone.
La pandemia, il clima, la guerra e la minaccia, tornata forte, dell’atomica. La paura che una apocalissi possa accadere è un tema della narrativa? In «Lessons», la minaccia nucleare che ha caratterizzato la guerra fredda è uno snodo narrativo e in «Tasmania» il protagonista sta cercando di scrivere un saggio sulle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki.
IAN McEWAN – La mia generazione è cresciuta negli anni della guerra fredda e abbiamo passato moltissimo tempo a parlare, manifestare, scrivere contro la corsa agli armamenti nucleari. Non abbiamo mai sentito che questo tema fosse tramontato. La negoziazione ci ha fatto passare da circa 40 mila missili negli anni Ottanta ai 5-6 mila dopo la caduta del Muro che sono ancora più che sufficienti per sterminare l’umanità. Oggi oltretutto sono controllati dall’intelligenza artificiale che è in grado di prevenire un eventuale intervento limitativo da parte dell’uomo, insomma una situazione da grilletto facile. Ricordo l’elenco dei 10 tipping point, presentato dal Potsdam-Institut circa 12 anni fa: si stanno avverando uno dopo l’altro. È vero, quella dei tipping point, del punto di straripamento, è una metafora molto potente che può riguardare anche le relazioni private, tutte le interazioni, sia fisiche che umane. Mi fa piacere che comunque la generazione più giovane si stia risvegliando, stia prendendo consapevolezza della minaccia. Ma la vita sul pianeta Terra continuerà, siamo una specie relativamente nuova con 200 mila anni di età e 10 milioni di anni sono molto lunghi nell’evoluzione.
PAOLO GIORDANO – Una cosa è cambiata nell’ultimo anno rispetto alla minaccia nucleare: per settant’anni avere un arsenale nucleare è stata una scommessa sulla pace, una pace basata sulla deterrenza. In Ucraina si è verificato l’opposto: il possesso di armi atomiche da parte di alcuni Paesi come la Russia è diventata una sorta di garanzia per andare avanti, non dico indisturbati, ma quasi, nell’invasione di un altro Paese. Oltretutto il disarmo è proseguito lentamente, molto di più rispetto all’acquisizione di nuove armi; ora abbiamo arsenali molto più grandi e sempre più Paesi si uniscono al club atomico. Insomma, oggi la paura che la guerra diventi una guerra globale e nucleare è concreta. Quindi le cose non sembrano andare molto bene, probabilmente siamo nella peggiore situazione dai tempi della crisi dei missili a Cuba, nel 1962. Stavo scrivendo la parte della bomba atomica su Hiroshima prima che la guerra cominciasse e ho avuto l’idea opposta: questo continuo parlare della fine del mondo per la pandemia, per i cambiamenti climatici, per la guerra, ha cominciato, a un certo punto, a diventare una sorta di rumore di fondo, senza un grande impatto. Ci sono due eventi nella nostra storia recente che si sono avvicinati alla fine del mondo: la Shoah e l’atomica su Hiroshima e Nagasaki. E di entrambi ci sono sopravvissuti, anche se non per molto tempo ancora. Mi ha dato speranza incontrare queste persone e sentire da loro testimonianze e rendermi conto che loro sono già sopravvissuti alla fine del mondo.
Nella vostra narrativa la scienza è un filtro attraverso cui analizzare la realtà. Ian McEwan ha mostrato spesso il suo interesse per le sfide scientifiche e tecnologiche che lo hanno portato a scrivere romanzi come «Solar» e «Macchine come me». Paolo Giordano ha spesso un approccio da scienziato, con il background della sua formazione da fisico. Che cosa offre la scienza dal punto di vista narrativo? Incide, e in che modo, sul vostro stile?
IAN McEWAN – Io in realtà metto tutto l’argomento sotto l’ombrello più grande della razionalità. Noi viviamo in un’epoca in cui stiamo ritrovando livelli quasi medievali di superstizione, in cui persone senza nessun tipo di prova arrivano a conclusioni basate su informazioni trovate in rete. Assistiamo a teorie complottiste assolutamente insensate che hanno un’influenza enorme sulla politica e la cartina di tornasole che reagisce nei complottisti è proprio il basso livello di istruzione. Mi interessa molto la nostra lotta con la razionalità ed è per questo che la scienza come forma organizzata di curiosità e di ragione è un modello molto potente. Non mi percepisco come una persona interessata alla scienza, ma come una persona interessata alla razionalità. Steven Pinker ha dimostrato in tantissimi anni di lavoro che non possiamo condurre la nostra vita quotidiana senza un elemento razionale, banalmente non riusciremmo a portare i nostri figli a scuola, a pagare le tasse o a cucinarci una omelette. Spesso la discussione, anche con le persone amate, consiste nell’invocare nell’altro un’irrazionalità opponendole la razionalità che pensiamo di avere noi. Io vedo la ragione come la manifestazione più calda, più affettuosa, più accogliente del nostro essere al mondo. Sono stati gli artisti e gli scrittori romantici della fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento a volerci convincere che la razionalità fosse sinonimo di inumano, di freddezza, di mancanza di linfa vitale. Io invece penso che proprio una ricerca razionale per capire come funziona il mondo e come funzioniamo noi sia il punto più alto della nostra civiltà.
PAOLO GIORDANO – Hai ragione Ian, è un’attitudine. Ho sempre pensato che la sfida per la maggior parte degli scrittori fosse usare la razionalità per mettere ordine nel caos del mondo e ho capito che per me è il contrario: trovare l’elemento caotico, irrazionale, imprevedibile, umano, nel grande, razionale schema del mondo. Ho sottolineato una frase nel saggio di Ian: la chiarezza è tutto. Può essere un programma per uno scrittore, soprattutto oggi. È vero, uno degli aspetti di fronte a cui ci troviamo e che è destinato a crescere è il diffondersi di teorie cospiratorie e in qualche modo ciò che io trovo importante nella scienza, rispetto ad altre forme di conoscenza, è che ha una relazione molto chiara con la verità. Certo i dati possono essere manipolati, ma la realtà è lì. Quando parlo con gli scienziati sento che abbiamo un terreno comune, fattuale, anche se, e questo può suonare paradossale, la scienza ha a che fare con il dubbio. In altre conversazioni c’è molto meno realtà e più assertività, più affermazioni che fatti. E questo rende la scienza direi politicamente impegnata.
Oggi la libertà dello scrittore non si misura soltanto dalla sua relazione con l’impegno, ma anche con istanze portate avanti spesso in modo estremo, sopratutto nel mondo anglosassone, come il politicamente corretto, la «cancel culture», l’appropriazione culturale.
PAOLO GIORDANO – La situazione vista dall’Italia è molto diversa rispetto agli Stati Uniti, ma anche rispetto alla Gran Bretagna. Al momento a me sembra che ci sia un po’ di manipolazione da entrambe le parti, in chi sostiene un certo rigore di correttezza e in chi lo nega. Per me è abbastanza facile affermare da che parte stare. Non mi sono mai sentito particolarmente minacciato nella mia libertà di espressione, se devo mettere un asterisco come desinenza in una mail va bene, non mi fa sentire costretto. E devo dire che certi obblighi possono anche essere potenti, efficaci per l’immaginazione, aiutarti a pensare a nuovi aspetti, nuove idee. Ma in Italia è diverso, credo stiamo ancora aspettando come questo si svilupperà.
IAN McEWAN – Ci sono due impulsi: da una parte la spinta ad affrancare le minoranze da situazioni svantaggiate e a prestare un’attenzione maggiore al rispetto dei loro diritti, a riparare le ingiustizie subite da alcuni gruppi di persone nel passato; dall’altra il tentativo molto chiaro di limitare la libertà di espressione. Questo mi mette molto in allarme, ad esempio quando sento di famose femministe che non sono ammesse all’università perché accusate di mettere a rischio la sicurezza degli studenti. La libertà di espressione è seriamente minacciata in Paesi come la Russia, la Cina, in quasi tutte le nazioni a maggioranza islamica la blasfemia è un tema all’ordine del giorno. L’ironia è che nei Paesi che hanno il privilegio di non essere perseguiti dal governo è come se ci fosse invece una persecuzione auto-organizzata. Quando vedo ciò che è successo al mio amico Salman Rushdie, ecco credo che sia davvero lo specchio dei tempi: il pericolo è ovunque e le minacce, le aggressioni, l’odio attraverso la Rete si sono moltiplicati. Viviamo in una cultura che sembra essersi dimenticata di come si possa manifestare il disaccordo. Negli Stati Uniti c’è anche un movimento molto potente per vietare e censurare i libri, movimento che per fortuna non è arrivato in Europa, Australia e Nuova Zelanda su larga scala, ma l’indice dei libri banditi dalle biblioteche scolastiche e pubbliche, le azioni fatte contro alcune librerie, è davvero preoccupante. E siccome qualche volta la follia degli Stati Uniti diventa un prodotto d’esportazione molto potente, bisogna fare molta attenzione. Pensiamo, per esempio, a che cos’è successo con la follia collettiva del dell’abuso sessuale, per riti satanici, sui bambini. Una caccia alle streghe partita negli Stati Uniti e arrivata in Gran Bretagna, dove per fortuna si è fermata rivelandosi per quello che era, una totale isteria culturale. Dobbiamo quindi essere molto attenti tutti, non solo gli scrittori, gli artisti, i poeti, a fare in modo che la libertà di cui possiamo godere ora sia mantenuta, giorno dopo giorno.