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 2022  novembre 12 Sabato calendario

Intervista a Carlo Guarienti

Ero già stato a trovare Carlo Guarienti, l’artista che vive all’interno di Villa Ada, uno dei parchi più belli di Roma. Un privilegio che per un signore allora 97enne, suonava come una sorta di eredità monarchica. All’epoca non mi poté ricevere. Promise che ci saremmo visti in un altro momento, quando i dolori che lo tormentavano al ginocchio e alla schiena fossero passati. Oltretutto eravamo in pieno covid. Ci tenne però a farmi avere due cose. Due “doni” li chiamò, frutto di un paio di storie particolarmente lunghe. Erano pochi fogli vergati con calligrafia grande e incerta. In uno si accennava al rapporto di amicizia con Goffredo Parise, nell’altro si faceva menzione di Piero Loredan, discendente della famiglia del Doge. Personaggio assai discusso con un passato partigiano (soprannominato il “conte rosso”) e una fase fascista, legata alle trame nere. Non so cosa volesse dirmi con quei due “messaggi”: Loredan cedette la sua meravigliosa villa vicino Treviso ai Benetton; Parise picchiò in un cimitero, dove gli aveva dato appuntamento, un collega giornalista. Tra i due fatti non c’era nessuna relazione: “Sono due storie da cui si possono ricavare alla luce odierna molte riflessioni”, mi scrisse in seguito Guarienti. Ma chi è questo signore dall’aria un po’ misteriosa che nel 1949, dopo una laurea in medicina, abbandona una sicura professione per dedicarsi anima e corpo alla pittura? C’è ora una sua mostra antologica inaugurata al Castello Estense di Ferrara, curata da Vittorio Sgarbi. Guarienti toccherà il secolo il prossimo anno. Lo incontro finalmente nella sua casa studio, insieme alla moglie Guia.
So che è stato a Ferrara per la mostra che le hanno dedicato.
«Ero lì, con qualche apprensione dovuta alla fatica del viaggio e al dubbio: piacerà? Ho visto molto affetto e ascoltato discorsi intelligenti».
Sgarbi parla di una pittura d’ombra e di ombre, come se dipingesse senza materia, senza corpi né compiacimento.
«Un po’ come la mia vecchiaia: molte ombre e nessun compiacimento».
Dipinge ancora?
«Qualche mese fa ho fatto un paio di disegni a matita. Poi più niente. Nel ciclo vitale perdiamo alcune funzioni. Ma non importa».
Cosa non importa?
«Rimestare su quello che si perde. Ci sono modi di essere al mondo che non torneranno. Inutile far finta che il “messia” comparirà di nuovo».
Molti artisti hanno avuta proprio in vecchiaia la loro grande stagione.
«Vero. Tiziano è il caposcuola di chi non intende mollare. Ma non siamo tutti dei Tiziano».
A chi le piacerebbe somigliare?
«Forse a Balthus, di cui sono stato amico. Mi piaceva il suo modo di essere schivo, perfino inafferrabile».
Lei è stato definito misterioso.
«Il mistero implica un enigma da sciogliere. Ma il primo è materia per parroci, l’altro affascina i matematici e gli artisti. Quanto a me non sono ne misterioso né enigmatico. La mia vita è stata abbastanza trasparente».
È nato nel 1923.
«Il 28 ottobre, a Treviso. Ma in realtà sono di Verona, dove ho fatto tutti gli studi. Fin da piccolo ho avuto lapassione per il disegno. Disegnavo ovunque, carta, muri, marciapiedi. Ho cominciato intorno ai 13 anni. In famiglia tranne il mio bisnonno nessuno dipingeva.
Avevo uno zio che scultoreggiava. Mi sono formato da solo. Un amico di mio padre mi regalò cartoline che illustravano quadri di grandi artisti: Bonnard, Picasso, Matisse. Mi piaceva in particolare Bonnard. Chiesi a mia madre di regalarmi un libro su di lui».
Ha formato così la sua educazione all’immagine?
«Non solo. Prendevo da Verona un autobus che mi portava a Venezia e lì trascorrevo il mio tempo nei musei e nelle chiese. A volte, con il treno, mi spingevo fino a Milano. Ci andavo perché avevo conosciuto Orio Vergani. Pranzavo da lui. Mi parlava di arte e di cucina. Mi suggeriva luoghi da visitare. Amavo gironzolare per la città. Una volta, sotto la Galleria, accanto alla Scala, vidi Alberto Savinio seduto a un tavolino che leggeva.
Non ebbi il coraggio di avvicinarlo. Lo conoscevo più come scrittore che come pittore. Avevo vent’anni quando lessiNarrate uomini la vostra storia.
Raccontava, con i tratti fulminanti della versatilità, le vite di alcuni protagonisti. Era il fratello di Giorgio de Chirico».
Lo ha conosciuto?
«Piuttosto bene. Mi invitò nel 1950 a partecipare alla sua Anti-Biennale. Esposi Il guerriero un dipinto che mi piaceva per il suo omaggio all’antico. In seguito andai a trovarlo al suo studio per sottoporgli alcuni miei lavori. Si complimentò e mi chiese come avevo ottenuto simili risultati. Seguendo i suoi insegnamenti di tecnica pittorica, risposi. Si sentì lusingato e volle che gli spiegassi come preparavo i colori. Giovanni Comisso, che mi aveva accompagnato, riportò il tono di quell’incontro nella monografia che mi volle dedicare».
Era amico di Comisso?
«Tanto di lui quanto di Parise. Mi piaceva quel veneto imbronciato, lieve, intrigante e un po’ folle».
Anche Parise ha scritto del suo lavoro.
«Da giovane Goffredo voleva fare il pittore. Ma poi decise che era meglio dedicarsi alla scrittura. Riteneva che tutto quello che dipingeva fosse già stato fatto».
È dura essere originali.
«Essere nuovi a tutti i costi è una delle tragedie dell’umanità moderna».
Mi tolga la curiosità a proposito di quei fogli che mi ha dato nel nostro incontro mancato.
«Stravaganti, non trova?».
Sì, ma cosa voleva dirmi?
«In uno se ricordo le parlavo della villa di Piero Loredan, Villa Spineda, frequentata da tanta gente: artisti, scrittori, persone di cinema. Parise, che era un assiduo, avrebbe potuto scrivere un romanzo su Loredan: il conte rosso che scoprì di avere un’anima nera. Poi tutto precipitò malamente. Ci fu la strage di Piazza Fontana e Loredan fu coinvolto. Fuggì in Argentina e poi prosciolto. La villa venne venduta, mi pare più volte. C’era materia per una storia tipicamente italiana».
La sua vita meriterebbe un romanzo?
«Non credo proprio. Avrei potuto diventare medico, mi ritrovai artista. Mi laureai dopo la guerra ma non ho mai esercitato. Ho dipinto, scolpito. Lasciando che il desiderio artistico avesse la meglio. Tutto qui».
Cosa le ha dato lo studio della medicina?
«Consapevolezza del corpo umano. Ero affascinato dall’anatomia. Tanto è vero che durante la guerra passai un periodo a Firenze, lavorando per l’Accademia di Bella Arti come preparatore anatomico».
Che attività era?
«Ricomponevo i cadaveri perché fossero esposti nellasala anatomica. Attraverso un sistema di cinghie di cuoio il corpo veniva mosso come fosse una marionetta. Nell’emiciclo gli allievi osservavano e disegnavano sui loro album quelle forme “michelangiolesche”».
Non c’era un sistema meno macabro?
«C’era la guerra e quelle salme erano vittime dei bombardamenti. Soprattutto giovani. Con la guerra ci si abituò alla morte».
Le è restata questa sensazione?
«La morte l’ho dimenticata, e a quanto sembra lei ha dimenticato me».
Come la raffigurerebbe?
«Assenza di colore. Il nero sarebbe la via più facile».
Si ritiene un figurativo?
«Bisogna saper maneggiare il cosiddetto figurativo. È come una mina inesplosa. Se finisce in mani inesperte può essere un disastro».
Però ha avuto diverse stagioni artistiche.
«Culto per l’antico, realismo, nature morte, ritratti e autoritratti, metafisica e infine l’evanescenza, quando tutto, compresa la memoria, sembra precipitare in un grande sogno. O in una fine anticipata».
La passione per l’arte è stata esclusiva?
«Ho amato anche la caccia finché ho potuto praticarla. Resta un po’ di nostalgia».
È stata così importante?
«Mi ha permesso, tra l’altro, di conoscere Hemingway. Ci incontrammo a Venezia, in casa del barone Franchetti. E poi ci si vedeva in qualche battuta alle anatre a Torcello. Ricordo che parlavamo in spagnolo. Conobbi anche Ezra Pound, che aveva scelto Venezia per trascorrere gli ultimi suoi anni. Personaggi interessanti. Risale a quel periodo il ritratto che feci ad Afdera Franchetti. Una donna esplosiva. “Afdera” credo fosse il nome di un vulcano africano. Glielo affibbiò il padre esploratore. Divenne la quarta moglie di Henry Fonda e sembrava uscita dalle pagine diColazione da Tiffany. Poi ritrassi anche Adriana Ivanchich che con Hemingway ebbe una casta storia d’amore».
Casta?
«Pare che il loro fosse un amore platonico. Lui l’ha poi inclusa nel romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi. Ma in quel periodo ero già a Roma. Mi trasferii con mia moglie che avevo conosciuto in Egitto, dove viveva. Ci sposammo nel 1951 ad Alessandria».
Mi ha detto prima che sua moglie discende dai Savoia.
«Guia è figlia di Iolanda di Savoia, e dunque nipote di Vittorio Emanuele. Dopo varie peripezie legali ha ereditato questa casa che è dentro villa Ada. Come può vedere è insieme studio e abitazione. È il mio mondo».
Da chi sente di essere stato influenzato?
«Ho attraversato diversi generi. I critici hanno parlato di Carpaccio e di Piero della Francesca, ma anche di Gregorio Sciltian e poi il surrealismo di Max Ernst e Balthus. Giacometti per le sculture. Ovviamente Savinio e de Chirico. Ma alla fine se un artista sopravvive al proprio tempo lo deve soprattutto al proprio stile. Un tempo lo stile era difficile che mutasse. Oggi è una mutazione continua. Dino Buzzati, che venne a visitare il mio studio, in un suo articolo mi definì il pittore figurativo che non disdegnava l’informale. Ma la verità è che gli stili passano e gli artisti restano. Quanti periodi si attribuiscono a Picasso o allo stesso de Chirico, ma che cosa è che conta veramente?».
Ammetterà che de Chirico è stato importante.
«Ho ammirato la sua precoce visione artistica e mi sono a lungo sentito in sintonia con la sua filosofia delle forme. Lo ricordo come un uomo sconcertante e gradevole al tempo stesso. Aveva un temperamento amoroso particolare».
In che senso?
«Gli piaceva sbottonare la calzatura da un piede femminile e poi riabbottonarla. Il gioco spesso finiva lì. Anche perché Isa, la sua seconda moglie, era molto, ma molto gelosa. In realtà si trattava di un innocente passatempo feticistico. Ricordo una sera a cena da loro, nella bella casa studio di piazza di Spagna. DeChirico insisteva nel proposito di voler ritrarre una cantante d’opera della quale, a quanto pare, era innamorato. Ci fu una scenata a tavola. Imbarazzo. Poi la moglie, per giustificarsi, disse: mio marito deve dipingere solo per la gloria. Scambiai un’occhiata con Guia. Pensai: a quale gloria si riferisce, al patrimonio venale o a quello artistico? Seppi in seguito che aveva provato a interdirlo. Senza tuttavia riuscirvi del tutto.
De Chirico è stato un genio. Ma non ha avuto quello stile tardo che ebbe Tiziano».
Eppure continuò sino alla fine a dipingere.
«Non ci si libera dai propri demoni. Oltretutto sempre più stanchi. Max Ernst disse che l’ultimo de Chirico dipingeva per distruggere il primo de Chirico. Ma non so quanto sia vero. La vecchiaia è un sipario che si ha sempre meno voglia di aprire. Bisogna indovinare quello che avviene dietro».
E la sua vecchiaia, visto che il prossimo anno sarà quota cento?
«Per tutta la vita sono stato incalzato dalla curiosità e assillato dalla noia. La curiosità ha stimolato i miei pensieri e la noia li ha guidati. Oggi si ha orrore della noia e paura della curiosità. Vorrei conservare fino alla fine questo duplice sentimento. Ma sento che sta svanendo come la mia pittura».