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 2022  novembre 12 Sabato calendario

Intervista a Eugenio Finardi

milano
San Siro, dal balcone della casa di Eugenio Finardi si può vedere lo stadio. È una zona strana, lontana dal centro: lunghe strade deserte di giorno che di sera diventano luogo di (mala)movida.
La casa di Finardi è accogliente, luminosa e, soprattutto, piena di cose: dischi ovviamente, libri, chitarre ( almeno sei), soprammobili etnici, piante, tessuti, tappeti, lampade dall’elegante design, quadri e un grande cagnolone spaparanzato per terra che non si muoverà mai da lì. In un angolo sono accatastate una serie di foto e locandine del giovane Finardi: «Le ha messe lì mia moglie, credo per prendermi in giro», si schermisce lui. La moglie, Patrizia Convertino, vedova di Mario Convertino, oggi porta avanti il famoso studio di grafica che, tra le tante cose, realizzò moltissime copertine di artisti tra cui proprio quelle di Eugenio Finardi.
Il suo nuovo album si intitola Euphonia Suite e vede, completamente riarrangiate per l’occasione, le sue canzoni più importanti in un unico lungo flusso con l’ausilio di soli due musicisti: Mirko Signorile al pianofortee Raffaele Casarano al sax.
Come ti è venuta l’idea di realizzare un’opera così particolare?
«Lavoro da più di dieci anni con Mirko e Raffaele e spesso ci siamo ritrovati a fare in modo diverso i miei brani. Per esempio abbiamo rinunciato a “jazzare” i brani che sarebbe stata la strada più facile. Il jazz rimane ma solo come spirito, come essenza nel senso che ogni concerto live diEuphonia sarà diverso, improvvisato».
È stata l’occasione per ripensare un po’ tutta la tua storia.
«Sì, ho cercato di costruire un percorso, una specie di viaggio in musica attraverso i vari stati d’animo legandoli, creando un’esperienza in cui le emozioni delle singole canzoni si sommano e si accumulano».
L’ascolto è molto denso e il fatto che i brani siano uniti crea come un’onda che ti investe con forza.
«La musica è un contatto diretto con l’assoluto. Io credo che la magia delle canzoni sia l’espressione percepibile di un’equazione matematica fatta di precise relazioni mentre le parole sono assolutamente soggettive come un’impronta digitale. Una bella canzone è una perfetta sintesi di questi due elementi».
C’è un particolare brano che ti emoziona di più cantare?
«Una notte in Italiache, non è un pezzo mio ma di Ivano (Fossati, ndr).
Infatti ho voluto che fosse il secondosingolo. Non so nemmeno cosa volesse dire esattamente e non so se lo sa lui, forse sì: sono immagini del suo vissuto, del suo tempo ma che per me hanno un significato magico.
Quando la canto e arrivo al punto in cui dice: “Io qui ho un pallone da toccare col piede/ Nel vento che tocca il mare/ è tutta musica leggera/ Ma come vedi la dobbiamo cantare” e poi finisce parlando del “futuro che viene/ a darci fiato” mi commuovo e la voce mi si strozza in gola. Si senteanche nel disco. Vedi? Mi succede anche adesso. C’è qualcosa di misterioso che tocca delle corde solo mie e questo mi aiuta a capire cosa vogliono dire le persone quando vengono da me e mi dicono che una delle mie canzoni li colpisce».
Beh tu sei stato il cantore di una generazione che si è riconosciuta in quello che cantavi: l’utopia, la ribellione, la lotta per migliorare il mondo fino alla disillusione e al cosiddetto “riflusso”. Ricordo il concerto per Demetrio Stratos a cui partecipasti anche tu in cui alla fine mentre gli Area suonavano l’Internazionale il pubblico si alzò come un solo uomo con il pugno chiuso: sembrava ci fosse una rivoluzione imminente...
«E invece era la fine di tutto. Pensa che la parola riflusso l’ho inventata io, almeno nel senso che le è stato attribuito di “ritorno indietro al privato”: non si usava prima».
Davvero? Non lo sapevo…
«Sì questo termine veniva usato per la prima volta nella mia canzone
Cuba quando si dice: “È che viviamo in un momento di riflusso/ E ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso/ Che tutto quel cantare sul cambiar la situazione/ Non sia stato che un sogno o un’illusione”. Tre mesi dopo uscì Panorama con lacopertina “È arrivato il riflusso” ma fino ad allora questa parola non era mai stata usata né dai giornalisti né dalla gente, né dal movimento: era un mio modo di dire. Ho battezzato un’era della storia italiana (ride)! E pensare che in origine era un termine che usavo quando fumavo del tipo “Oh ragazzi, sto avendo un riflusso” (ride). Almeno riconoscetemelo!».
Ma qual era allora il tuo rapporto con il movimento? Eri vicino a quella che allora si chiamava Autonomia?
«Per niente: li ho sempre detestati perché venivano a rompermi le palle ai concerti. Io ero del Pci».
Credevo fossi più vicino alla sinistra extraparlamentare.
«Per me era già tantissimo: io ero mezzo americano e mio padre era un anticomunista viscerale, sospetto persino che fosse in qualche servizio segreto. Ma è sempre stato assolutamente antifascista: era un liberale malagodiano (Giovanni Malagodi è stato segretario del Partito Liberale dal 1954 al 1972,ndr) e durante la Seconda guerra mondiale aveva aiutato gli inglesi nel senso che l’Ovra (la polizia segreta fascista, ndr)gli aveva chiesto di tradurre le cose che l’Ambasciata inglese buttava via e lui invece aveva avvisato gli inglesi e traduceva quello che voleva lui».
Incredibile. Immagino il conflitto con tuo padre a quei tempi. Ma al Pci eri proprio iscritto?
«Certo. Poi però nel ’79 quando laRussia invase l’Afghanistan il segretario di sezione mi ha invitato a non rinnovare la tessere perché ero fuori linea. Il problema è che io, più che un militante ero un hippie, ero fuori da qualsiasi linea».
Di sicuro con “Legalizzatela” sei stato il primo a prendere una posizione precisa sulla droghe leggere. In anni successivi l’ha fatto Vasco Rossi: a proposito c’è una foto in cui sei con lui e Faust’O. Vi conoscete bene?
«In realtà no. Faust’O non lo vedo da allora ma in generale con i miei capita che ci troviamo in qualche festival dietro le quinte ma ognuno se ne sta nel suo camerino. Ecco, negli anni ’70 non sarebbe stato così: saremmo stati tutti in un tendone e magari alla fine si suonava. Di recente Ligabue mi ha invitato a un suo concerto e ho ricambiato regalandogli una chitarra che ho costruito io. Mi piace costruirmi le chitarre. Ecco guarda…».
Finardi prende una chitarra e inizia a suonare un blues: «Il blues è il mio rifugio, mi ci perdo. Oggi non riesco più a cantare Musica ribelle con lo spirito che avevo allora. Preferisco cantare un pezzo come Soweto:Nelson Mandela è stato l’unico dei nostri eroi che non ci ha mai tradito».