Robinson, 12 novembre 2022
Un romanzo con una capra per protagonista
Punacci è il romanzo che segna il ritorno sulla scena letteraria di un autore che si era pubblicamente dichiarato morto. «Lo scrittore Perumal Murugan è morto», aveva scritto su Facebook, «Lasciatelo in pace». Il suo romanzo Madhurobhagan (tradotto in inglese con il titolo di One part womari)nel 2014 aveva cominciato ad attirare le attenzioni dei gruppi Hindu di estrema destra, che l’avevano accusato di blasfemia e di offendere le donne induiste.Non sorprende quindi che Punacci storia di una capra nera(Utopia Editore, 2022) cominci con la premessa che Murugan ha ormai «paura di scrivere degli uomini e scrivere degli dei» lo terrorizza. «Dunque, lasciatemi parlare di animali», sentenzia. Ci si domanda a questo punto come le minacce e i roghi dei propri libri possano traumatizzare la scrittura di un romanziere, tanto più che ancora è fresca l’immagine dell’attacco in cui Salman Rushdie ha perso la vista da un occhio e l’uso di una mano.Ma che Punacci non si limiti a essere solo «la storia di una capra nera» è evidente dalle primepagine, quando l’anziana coppia di coniugi porta la capretta a forare le orecchie – «una pratica tipica in quella regione: era il governo stesso a farlo, sia ai propri cittadini che ai loro animali domestici». In poche righe l’autoremette in luce le problematiche di privacy e sorveglianza statale legate alla progressiva obbligatorietà in India del sistema Aadhaar, che rilascia un numero identificativo unico basato sulla raccolta dei dati biometrici dei cittadini.Punacci è il nome della capretta che viene regalata a una coppia di anziani da uno sconosciuto che assomiglia a Bakasuran.L’animale, più che allevato, viene cresciuto dai vecchi come se fosse una bambina, e si rivela essere una benedizione e una rovina allo stesso tempo. I due, appartenenti a una comunità Asura, vivono in una terra inospitale, maledetta da un clima arido che va peggioranando velocemente, e governata da un regime autoritario in cui i cittadini hanno «la bocca solo per tenerla chiusa, le mani solo per congiungerle in segno di obbedienza, le gambe solo per inginocchiarsi, la schiena solo per inchinarsi, il corpo solo per prostrarsi». La biografìa di Punacci è il pretesto attraverso cui Perumal Muru-racconta l’esperienza umana della nascita e della morte, della sofferenza e della curiosità, cosa che fa caratterizzando l’animale con tratti antropomorfi come la capacità di provare amore, rimorso, di ricordare: per esempio, ritornando dal pascolo la sera, la capretta non può fare a meno di riportare all’anziana donna il resoconto delle proprie giornate. Se per gran parte del romanzo quella di Punacci ci appare come una vita umana, in cui nemmeno una capra può sfuggire alle dinamiche di genere, alla fine l’autore non permette mai che il lettore dimentichi che il suo destino è quello di un animale, e che in quanto tale è legato a questo mondo solo dall’utilità che può avere per i suoi proprietari.Sicuramente Punacci è un romanzo politico, ma non sacrifica all’allegoria il lato più interessante di questa favola antropomorfa – la natura e il dolore che l’uomo infligge alle creature le cui esistenze considera troppo insignificanti per essere degne di essere raccontate. L’intero libro è la risposta alla domanda che Perumal Murugan si pone nella prefazione: «Per quanto tempo le storie non raccontate resteranno sepolte nel profondo della terra come semi dormienti?».Nella lettura percepisco a volte quella rigidità che si incontra nelle traduzioni dall’hindi, dall’urdu, dal singalese – e non capisco mai se sia tipica di una letteratura a cui siamo poco avvezzi o propria della difficoltà di tradurre lingue – e quindi storie – storicamente subalterne. Ad ogni modo, quello di Perumal Murugan è il primo libro in lingua tamil a essere pubblicato in Italia. Mi pare sorprendente per due motivi: da un lato perché ci sono voluti venticinque anni per superare quella che lo storico e saggista William Dalrymple definisce come la «rinascita della letteratura indiana in inglese» dopo il successo globale di Arundhati Roy; dall’altro per il fatto che una lingua con una lunga tradizione letteraria alle spalle non abbia mai trovato uno sbocco da queste parti del mondo. Mi pare sia anche il segnale di un’inversione di tendenza: un certo tipo di letteratura regionale, anche più politica, è sotto i riflettori, e la vittoria del Booker di quest’anno da parte di uno scrittore sinhalese, Shehan Karunatilaka, dopo che nella shortlist dello scorso anno c’era il nome di un autore tamil, Anuk Arudpragasam, mi sembra un segnale ancora più importante.