La Stampa, 12 novembre 2022
Putin umiliato
Un uomo è stato arrestato nel centro di Mosca per un manifestino con la scritta «Traditori, avete perso Kherson». La resa dell’unico capoluogo regionale conquistato dagli invasori russi in otto mesi segna una svolta anche sul fronte interno: a finire in manette non sono quelli che si oppongono alla guerra, bensì i suoi sostenitori. Mentre Mosca per la quinta volta in due giorni chiede i negoziati “senza condizioni” con l’Ucraina, a creare problemi al regime di Vladimir Putin sono ora i suoi principali sostenitori, i falchi nazionalisti e militaristi. La “zrada”, la caccia ai traditori, un classico tormentone della politica ucraina, arriva a Mosca, e perfino un fedelissimo putiniano come lo scrittore Zakhar Prilepin giustifica la disastrosa resa da Kherson con un «comandante supremo tratto in inganno» da innominabili ignoti. Il mito di una “ritirata strategica”, presentato nei talk show e nei canali Telegram del Cremlino dai propagandisti, è sbiadito con il passare delle ore, e verso la fine della giornata di venerdì, quando Volodymyr Zelensky annuncia ufficialmente il ritorno di Kherson all’Ucraina, le immagini degli abitanti che abbracciano i soldati di Kyiv (mostrate anche dalla Tv russa), e quelle dei soldati russi in fuga precipitosa, convincono anche i più scettici: la Russia ha perso.Una vittoria ucraina molto attesa, e molto annunciata: il destino di Kherson era diventato chiaro il 12 luglio scorso, quando gli ucraini avevano colpito per la prima volta il ponte Antonivskiy con i missili americani Himars. Il giorno prima, il Kyiv Independent pubblicava un dettagliato piano della controffensiva, con la distruzione dei ponti annunciata come primo atto di un assedio. Ovviamente, si trattava di un parziale depistaggio – aveva spinto infatti i russi a dirottare verso Sud il grosso delle loro truppe, scoprendo il fianco a Kharkiv e nel Donbass – che però conteneva un messaggio vero: i russi erano invitati ad andarsene dalla sponda destra del Dnipro con le buone, prima di venire isolati dai rifornimenti provenienti dal Donbass e dalla Crimea. Nei mesi successivi, i ponti sul Dnipro erano diventati oggetto di un tiro a segno quotidiano con gli Himars, e la notizia che i militari russi avessero spazzato dai negozi di Kherson ogni mezzo natante, inclusi i canotti gonfiabili, risale a settembre. Nello stesso periodo, a Mosca circolava voce che i militari russi si fossero perfettamente resi conto dell’inesorabile finale, e avessero chiesto a Vladimir Putin di ritirarsi dalla città prima di dover venire costretti alla fuga.Il presidente russo ha preferito invece aggiungere un altro errore alla montagna di quelli già commessi, annunciando la “annessione” dei territori ucraini occupati. Soltanto pochi giorni fa era apparso davanti alle telecamere con alle spalle una sagoma della Russia con le regioni annesse bene in vista. Non è dato sapere chi abbia “tratto in inganno” il presidente russo, spingendolo a dichiarare suoi territori sui quali non solo non aveva alcun diritto, ma che non controllava nemmeno. Così come non è chiaro se sia stata un’idea di Putin minacciare l’uso dell’atomica per difendere quelle che riteneva “terre russe”. Il risultato è una figuraccia di dimensioni epiche, che con la sua stessa esistenza cancella qualunque ipotesi di “ritirata strategica": è impossibile fingersi un Kutuzov che lascia Mosca a Napoleone, quando poco più di un mese fa scandivi “Russia, Russia”, in compagnia dei collaborazionisti che avevi insediati a Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhia. Alcuni di loro sono già morti in strani incidenti d’auto, i ponti sono stati fatti saltare dagli stessi russi in ritirata, e gli abitanti delle città liberate stanno strappando i manifesti “Kherson è Russia, per sempre”, sui quali le autorità dell’occupazione avevano investito budget cospicui.Il Cremlino ripudia la paternità di questa sconfitta umiliante, e il portavoce della presidenza Dmitry Peskov commenta la resa di Kherson con un clamoroso «andate a chiederlo ai militari». Putin latita dai media, come fa sempre quando è in difficoltà, e i volti della sconfitta sono i generali e il ministro della Difesa Sergey Shoigu, mentre i blogger militaristi un tempo amati dal Cremlino – già minacciati dalla magistratura dopo le critiche alla ritirata russa da Kharkiv – preferiscono tacere. Una posizione che suscita critiche nemmeno tanto velate di molti alleati, come Mikhail Leontiev, il portavoce del potente capo di Rosneft Igor Sechin, che in tv dichiara: «Deve essere la politica ad assumersi la responsabilità». La realtà sembra aver bussato finalmente alle porte del castello di sabbia ideologico costruito da e per Putin, e gli stessi personaggi che inneggiavano alla “Russia per sempre” ora sembrano rassegnarsi non solo alla perdita di Kherson, ma anche alla sconfitta nella guerra. Nei canali Telegram gira la voce di un Putin pronto a ritirarsi nel 2024, a favore di un “delfino” che inizi un negoziato con Kyiv, Bruxelles e Washington. E Aleksandr Dugin, il mistico neonazista che ha contagiato il Cremlino con l’idea che la Russia sta «combattendo l’Occidente satanista», arriva a minacciare Putin con la sorte del «re della pioggia», sacrificato se non riesce a «salvare il suo popolo». Proprio ieri Putin ha deciso di non partecipare al G20 di Bali nemmeno online: segno che non spera in una svolta diplomatica, e non vuole umiliazioni pubbliche, ma forse anche preferisce non lasciare Mosca.