La Stampa, 12 novembre 2022
Cosa pensa Draghi
Coerente all’istinto che ciclicamente lo fa sparire dalla scena pubblica, il bailamme fra Roma e Parigi ha un solo spettatore silenzioso: Mario Draghi. Mentre andava in pezzi l’asse diplomatico costruito con pazienza per venti mesi, l’ex premier era a Londra a godersi qualche giorno di vacanza coi nipoti. Come sempre non ha mancato di tenersi informato su quel che stava accadendo. Chi ha avuto il privilegio di accedere al suo telefono l’ha sentito stupito, quasi incredulo per gli errori di Giorgia Meloni nella gestione della Ocean Viking, se non altro per la rapidità con la quale ha dimenticato i consigli dispensati. Breve flashback: 22 ottobre, Palazzo Chigi. L’ex banchiere centrale e la leader di Fratelli d’Italia si chiudono in un salottino. Per oltre un’ora Draghi spende parole sulla materia che meglio conosce: i rapporti in Europa. Invita Meloni a evitare passi falsi sia con la Francia che con la Germania. Snocciola tutte le ragioni per le quali coltivare rapporti di buon vicinato, i dossier sui quali il giudizio dei grandi elettori dell’Unione è essenziale. L’accordo sul tetto al prezzo del gas, la riforma del Patto di stabilità, del fondo salva-Stati, la revisione del Recovery Plan, la vendita di Alitalia, il futuro di Telecom. Da qualunque angolo lo si guardi – questo il ragionamento di Draghi – «non c’è partita che l’Italia possa vincere da sola». All’economista forse sfugge solo di metterla in guardia dal cul de sac più pericoloso che c’è: l’immigrazione. Fino a quel momento i contatti fra i due – e fra i rispettivi staff – era stato quasi quotidiano. L’aveva detto pubblicamente: «Sarò garante di una transizione ordinata». Ma si era anche ripromesso che quella postura da lord protettore sarebbe venuta meno il giorno dopo il passaggio di consegne. E così è stato, dicono le fonti interpellate: l’ultimo contatto fra i due risalirebbe a quel giorno. Secondo alcuni Meloni in questi giorni ha tentato di raggiungerlo al telefono, invano.L’unica certezza è che Draghi considera quello consumato in queste ore un gigantesco errore. Se c’è un alleato che l’Italia non può permettersi di perdere, è Emmanuel Macron. Perché l’agenda dei due governi è simile su molte partite. L’energia e i conti pubblici, per citare le due più importanti. Perché la Francia il più influente dei Paesi della sponda sud dell’Unione.Draghi aveva dato credito a Meloni, anche nell’ultima riservatissima cena all’Eliseo, invitato da Macron. Lo aveva fatto perché convinto delle sue doti di leadership, e perché certo che se c’è un momento storico in cui sfruttare l’asse con Parigi, è questo: l’Italia e la Francia si sono vincolati attraverso un trattato intergovernativo (il patto del Quirinale) nel momento più difficile dei rapporti fra Francia e Germania. «Per decenni, e fino all’uscita di scena di Angela Merkel, l’Unione è stata governata dall’asse franco-tedesco. Dire che avessimo spostato l’asse su di noi sarebbe troppo, ma ci eravamo molto vicini», racconta uno stretto collaboratore sotto la garanzia dell’anominato.Sui perché del pasticcio di queste ore Draghi non si è granché interrogato. Ma chi ha lavorato con lui ha maturato una convinzione: la vicenda Ocean Viking ha portato in superficie una divisione sotterranea interna al governo francese e alla squadra di Macron. Fra chi ha costruito con convinzione l’asse con l’Italia e chi invece era scettico, soprattutto dopo la vittoria elettorale di Meloni. Che ci fossero crepe all’Eliseo, a Palazzo Chigi lo avevano avvertito in un paio di occasioni dopo il voto di settembre. Prima con le parole sprezzanti della ministra degli Affari europei Laurence Boone sulla necessità di «vigilare sull’Italia», e il giorno successivo all’insediamento della Meloni, quando fino all’ultimo non era chiaro se i due si sarebbero incontrati durante la visita del francese a Roma. Il 21 ottobre, a precisa domanda, Macron aveva escluso l’incontro. Poi, sotto gli auspici del Quirinale, la decisione di accettare il faccia a faccia, seguito da una stretta di mano non troppo convinta. Un altro degli ex frequentatori di Palazzo Chigi lo dice allargando le braccia: «Se il nuovo governo voleva dare un alibi al partito degli scettici, ha centrato l’obiettivo. Speriamo sia solo un problema di inesperienza».Se l’ambizione di Draghi fosse stata esaudita, a mettere una pezza alla crisi diplomatica dal Colle oggi ci sarebbe lui. Macron, che dell’ex presidente Bce ha stima sin dai tempi in cui era ministro delle Finanze, ora vorrebbe farlo succedere a Jens Stoltenberg alla Nato. Ma il primo a essere poco convinto dell’ipotesi è proprio Draghi: non si sente tagliato per quel ruolo, ed è convinto che a decidere le sorti di quella poltrona non sarà l’inquilino dell’Eliseo, ma quello della Casa Bianca, che gli preferirebbe in ogni caso qualcuno più avvezzo ad assecondare i desiderata di Washington. L’unico futuro che l’ex premier non disdegnerebbe è al Consiglio europeo, la cui successione è però prevista solo nel 2024. Cosa farà nel frattempo nessuno, neppure gli amici più intimi, è in grado di prevederlo. L’unico futuro che non si augura è quello di essere chiamato a rimediare agli errori della politica italiana. Sarebbe la terza volta in dieci anni. —