il Giornale, 12 novembre 2022
Lettera a Bianciardi
Caro Luciano Bianciardi: cento di questi anni, e decine di quegli splendidi libri – Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), Aprire il fuoco (1969)... – e centinaia delle tue inimitabili traduzioni (Stephen Crane, Arthur Clarke, Bellow, Conrad, Faulkner, Maugham, Miller, Steinbeck...), e migliaia dei tuoi extravaganti pezzi per i giornali: di politica, di calcio, di cinema, di arte, di televisione...
La vita è agra, hai ragione; ma gli anniversari possono essere meravigliosi. Per il tuo centenario (a proposito: Auguri) – nascita nel 1922, anni di marcia e di «Obbedisco!», e morte nel 1971, anni di piombo e di protesta – si sono ricordati ancora tutti di te. Lettori, editori, scrittori, il bel mondo culturale che tu mal sopportavi, e poi la tua Grosseto, da cui te ne andasti, e Milano, dove arrivasti, e che fu la tua città (più odiata che amata), e poi i vecchi amici che non si perdono una ristampa, vogliono un’altra edizione dei racconti, aspettano una nuova raccolta di scritti... E non ti ha dimenticato, soprattutto, tua figlia Luciana, la quale ti ha fatto tre regali: un premio, a te intitolato, che avrà la sua prima edizione a Grosseto, il 14 dicembre, organizzato dalla Fondazione Bianciardi e dalla Feltrinelli (è una sorta di atto riparatorio per averti licenziato tanti anni fa, era il 1956, per scarso rendimento...), e poi due libri incredibili che pubblica con la sua casa editrice, ExCogita. Eccoli qua.
Uno ti riguarda come giornalista, l’altro come narratore, anche se tua figlia dice che «le cose non si possono separare, i due Bianciardi sono indistinguibili, moltissimi articoli sono dei piccoli racconti, e tanti racconti sono grandi pezzi di costume; e poi nel mucchio dei suoi lavori, perché scriveva tantissimo, non si trova mai nulla di mediocre o di sciatto. Anche quando usa la mano sinistra il risultato è sempre di grande qualità: preciso, rigoroso, curato. E questo perché lui era uno scrittore naturale. Non era capace di battere a macchina una sola riga senza metterci dentro uno stile inconfondibile, il suo».
Stile, rabbia, intelligenza, provocazione, eleganza. Nei pezzi di Luciano Bianciardi c’è tutto. E Tutto sommato (Excogita) s’intitola l’opera che raccoglie i suoi scritti giornalistici: un cofanetto, tre volumi, quasi tremila pagine, 964 articoli in ordine cronologico dal 1952 al 1971 – e che raccontano la sua personalissima storia d’Italia – sparpagliati su 63 diverse testate tra quotidiani e periodici, da Belfagor a l’Unità e l’Avanti!, da ABC al Guerin Sportivo. «Ma attenzione. Non è che mio padre scrivesse per chiunque glielo chiedesse, e qualsiasi giornale andasse bene, anzi. A un certo punto Indro Montanelli lo chiamò al Corriere della sera, erano gli anni Sessanta, e gli avrebbe dato 300mila lire al mese per un articolo a settimana. Sono circa cinquemila euro di oggi... Ma lui disse no. E sì che aveva due famiglie da mantenere. Montanelli gli diede del bischero, e anche noi figli... Ma lui era così: diceva che in quel Corriere non avrebbe potuto scrivere quello che voleva, e preferiva lavorare per Kent o Playmen, dove si sentiva più libero...».
Libero, anarchico, ribelle, antimeridiano, anti-sistema, rabbioso, inclassificabile... oppure? Qual è l’aggettivo giusto per suo padre? «Profetico, mi viene da dire. Profetico perché nei suoi pezzi è davvero preveggente, è un anticipatore. Quaranta o cinquant’anni fa lui vedeva cose che sarebbero successe oggi. Quando lui malparlava del miracolo economico sembrava un pazzo, mentre ora lo capiamo. Ora vediamo l’altra faccia del boom. Così come lui intuì subito la degradazione della politica a ricerca del potere personale, la deriva consumistica della società, gli eccessi del capitalismo... Pensi alla televisione: papà diceva che andava spenta! Per me che ero piccola invece quello schermo sembrava un mondo meraviglioso, ma solo adesso capisco i tanti danni che ha fatto... Lui ha saputo intuire l’evoluzione della vita quotidiana degli italiani, e ha raccontato come cambiavano le abitudini, il calcio, l’arte, la letteratura...».
Ecco, la letteratura. E siamo all’altro regalo che ti fa tua figlia, caro Luciano. Ti ricordi quel tuo racconto pazzesco in cui immagini un mondo a rovescio, s’intitola La solita zuppa, l’hai scritto nel 1965. Incredibile: 1965... Dieci anni prima del Fantasma della libertà di Luis Buñuel ti eri inventato un futuro in cui il vero tabù non è il sesso, che tutti fanno con tutti, quando e come vogliono – e c’è anche l’ora di masturbazione a scuola per i bambini! – no, il vero tabù è il cibo. Gli uomini sono costretti per legge a mangiare sempre la solita zuppa, appunto, cioè lo stesso cibo, e il risultato è un proliferare di «case chiuse» dove si consumano di nascosto da sguardi indiscreti le fiorentine, intese come bistecche, mentre il deliveroo è quello delle prostitute e degli gigolò, che tu chiami e vengono in casa tua all’ora che vuoi, a farti quello che vuoi... Fu un caso! A te, al tuo editore – Massimo Pini della Sugar, che personaggio! – e persino al tipografo, che al processo si difese in dialetto varesotto dicendo al giudice «Ma se mi a lési tut quel che stampi, ven mat!», insomma a tutti quanti costò una denuncia per oscenità e una per vilipendio della religione... «Sì, perché a papà non bastò immaginarsi la sciura insoddisfatta che alla sera ordina una bella Minchia delle Madonie... no, andò oltre: scrisse che L’ultimo incontro di Gesù con gli apostoli, che gli esegeti vogliono farci passare per un convegno omofilo, fu in realtà un’orgia alimentare...». E come andò a finire, lo sappiamo: il libro – era un’antologia di racconti erotici – fu ritirato dal commercio, il tuo racconto censurato e fu indetto il processo, dove a difendervi arrivarono Umberto Eco, Oreste Del Buono, Guido Piovene con le loro expertise... Foste assolti per il reato di oscenità, ma condannati – con amnistia... – per quello di vilipendio della religione. Che Italietta che era quella di allora... E adesso ExCogita, nel volume Imputati tutti. La solita zuppa: Luciano Bianciardi a processo, pubblica tutto quanto: il racconto nella sua interezza, completo delle parti allora censurate e in tutta la sua disarmante ironia, e poi gli atti processuali attraverso cui si ricostruisce l’intera vicenda giudiziaria. Che appare più grottesca, comica e surreale del racconto stesso. «Il volume l’ho curato personalmente, assieme a Federica Albani. È un modo per rendere giustizia al babbo. Anche lì non fu capito. Ecco perché è utile rileggere quel racconto e lo scandalo che suscitò. Perché una vicenda che sembra lontana è invece vicinissima: ci permette di riflettere sul fantasma della censura, dal quale non ci siamo affatto liberati. Magari sì per il sesso: oggi possiamo scrivere e leggere ogni cosa. Ma sull’usare certe parole invece di altre, o l’affrontare in un certo modo le religioni, siamo allo stesso punto. Ecco. Mio padre ci ha insegnato che uno scrittore può e deve toccare l’intoccabile».
Che poi è esattamente quello che Luciano Bianciardi – sempre irriverente verso i dogmi del passato e il perbenismo del presente, sigaretta, bestemmie e il carrello della macchina per scrivere da tirare – ha fatto nei suoi pezzi, i suoi racconti, i suoi romanzi.