il Giornale, 12 novembre 2022
L’America di Faulkner
In un ciclo di lezioni tenute alla University of Virginia nel 1957, William Faulkner, innaturalmente sobrio, tentò di rispondere alla domanda. Gli piaceva andare in barca, non rinunciava alla caccia al cervo, aveva appena pubblicato The Town. Riguardo agli scontri razziali che laceravano il paese aveva dichiarato la sua fede sudista: «Se si dovesse arrivare a combattere io lo farei per il Mississippi contro gli Stati Uniti, anche se questo significasse andare per le strade a sparare ai negri». Appiccarono polemiche. Faulkner rettificò, in un articolo che invocava pace e prudenza, If I Were a Negro, uscito su Ebony nel giugno del 1956, salvo tornare sulle sue posizioni, davanti agli studenti: «Il negro dovrà smettere di pensare come un negro. Non sarà facile per lui. Il suo fardello è che a causa del suo colore non gli basterà pensare e agire come un bianco. Dovrà pensare e agire come il migliore tra i bianchi» (20 febbraio 1958).
Antimoderno, etilista, elitista, Faulkner era un conservatore. Tutto lì. Vedeva il suo mondo un mondo fatto di generosità e violenza, di riscatto e rivolta; un mondo, infine, per quanto reietto, retto sull’equilibrio, sulla virilità della virtù agonizzare; cercava di difenderlo. Pensava che il problema dei neri dovesse essere risolto dai bianchi del Sud. Lo commuoveva, ogni volta, il ricordo di Uncle Ned, Ned Barnett, il servo di famiglia. Era stato al servizio del nonno di Faulkner, aveva rifiutato la libertà, servì lo scrittore pur di stare a Rowan Oak, pur senza stipendio. Portava la cravatta anche quando mungeva le vacche; aveva un portamento e una dignità leggendari: istruì il piccolo William nell’arte della caccia alla volpe, che lui chiamava «fenice». Uncle Ned era morto nel 1947 e intorno a lui Faulkner ritaglia la figura di Lucas Beauchamp, il nero severo e serafico, accusato ingiustamente di aver ucciso un bianco, Vinson Gowrie, sotto tenaglia di processo e linciaggio, protagonista di Intruder in the Dust, romanzo noir scritto di getto, in una manciata di mesi, e pubblicato da Random House nel settembre del ’48. Fu un libro di successo non il più bello. Faulkner tornava al romanzo dopo otto anni nel 1940 aveva licenziato The Hamlet, nel 1946 Malcolm Cowley aveva ideato il Portable Faulkner, repertorio antologico decisivo per far divulgare Faulkner ai più (e per riportare in auge libri esauriti da tempo, pressoché invenduti). Jean-Paul Sartre, nei reami francesi, sussurrava che «Pour les jeunes Faulkner c’est un dieu!».
La domanda riguardava proprio quel libro. Uno studente chiese cosa intendesse lo scrittore per Intruder in the Dust. Faulkner specificò che dust, polvere, vale, nei dialetti del Sud, per dusk, crepuscolo. Tutto, nei romanzi di Faulkner, si muove tra polvere e crepuscolo, tra vanità e tramonto; tutti i protagonisti dei romanzi di Faulkner sono uomini fatti di polvere che s’incamminano verso il crepuscolo. Il Qoelet che si fonde al blues, alla sparatoria imprevista, al mito dei Comanche. Il titolo, dunque, più che «Intruso nella polvere» suonerebbe come «Intruso al crepuscolo». Fernanda Pivano a cui si deve la nota preferì la formula Non si fruga nella polvere, dal nitore biblico; in Francia, l’editore Gallimard optò per L’intrus. Il romanzo fu stampato da Mondadori nel 1951 numero 284 della mitica collana Medusa e quel titolo chiamiamola: tradizione della traduzione resiste ancora. La nuova versione Adelphi, a cura di Roberto Serrai (pagg. 236, euro 19), si chiama dunque così, Non si fruga nella polvere; quanto al resto, per fortuna, cambia molto. La lingua di Faulkner è magmatica, magnetica, perennemente giovane (come capita all’epica): necessita di traduttori spericolati. Esempio. Questa è la Pivano: «Dopo tutto non è che un negro malgrado il naso e il collo rigido e la catena d’oro dell’orologio e il suo rifiutarsi di pensare signor anche quando lo dice». Questo Serrai: «Dopotutto è solo un negro malgrado l’alterigia e la caparbietà e la catena d’oro per l’orologio e quel suo rifiutarsi di pensare che uno è un signore anche quando lo chiama così». La Pivano traduce «Be’, vecchio mio Ti sei deciso a dar da fare», mentre Serrai, in forma serrata e rigorosa, «Be’, vecchio Alla fine l’hai combinata grossa».
Intruder in the Dust è il romanzo di Faulkner sulla questione razziale. Ambientato a Jefferson, capitale della fittizia contea di Yoknapatawpha trigonometria nostalgica del Sud, con «le vecchie grandi e fatiscenti case in legno su prati ispidi e incolti con vecchi alberi e cespugli dalle radici aggrovigliate profumati e in fiore dai nomi che la maggior parte di chi aveva meno di cinquant’anni non conosceva più», il libro si sviluppa lo dice Faulkner come«un poliziesco». Lucas è un nero dal rigore indefettibile, aristocratico, figura del giusto colpevolmente colpito, del capro espiatorio. A risolvere l’intrigo dacché il libro, alla mercé di una scrittura intricata, involuta, stordente, resta un giallo ci penserà un ragazzo tombarolo e «la signorina Habersham», «una zitella di settant’anni senza parenti». È il romanzo confederato di Faulkner, questo, quello che segna, in modo inderogabile, la differenza tra il Sud degli States e «il Nord straniero che circoscriveva un’idea, un’emozione, una condizione», e le ragioni per cui «dobbiamo resistere al Nord». È il romanzo in cui Faulkner detronizza i totem della modernità americana, con ironia nera: «L’americano ama per davvero soltanto la sua auto: non sua moglie né suo figlio né il suo Paese e nemmeno il suo conto in banca ma solo la sua auto. Perché l’automobile è diventata il nostro sex symbol nazionale. Non riusciamo davvero a goderci niente se non di nascosto in qualche vicolo».
Il romanzo l’ho detto concesse a Faulkner il successo che attendava da tempo. Riproduceva in vitro, entro una trama infine semplice, il carisma della sua «scrittura considerata rivoluzionaria di una tenzione poetica, di un’immaginazione incalzante, di un’atemporalità nei colloquialismi tali da rendere il libro oggetto di studio linguistico» (Fernanda Pivano). Ci sono le tipiche, sinuose, frasi di Faulkner: una di queste, per dire, si dilunga per oltre dieci pagine, immane boa verbale. Faulkner, incenerite le ipocrite accuse di razzismo la pubblicazione del saggio di Michael Gorra, The Saddest Words: William Faulkner’s Civil War, nel 2020, in questo, è di esemplare viltà: Faulkner va letto, è detto, anche se, riguardo alla questione razziale, «rimase sempre un uomo bianco del Sud» è tutto lì: attacchi a leggere «Era mezzogiorno in punto quando quella domenica mattina lo sceriffo arrivò alla prigione con Lucas Beauchamp anche se tutta la città (e pure tutta la contea, se è per questo) sapeva già dalla sera prima che Lucas aveva ucciso un bianco» e penetri tra le paludi del Sud, affondi in quelle sabbie mobili di chiacchiere e quisquiglie, sospetti, nobiltà defunte, defunti, e non vuoi altro che quello, il soffocamento, la morte per eccesso di bellezza.
Due anni dopo gli avrebbero conferito il Nobel per la letteratura; occasione per l’ennesima ubriacatura, per l’ennesima, abissale, avventura d’amore. La Random House aveva venduto i diritti del romanzo alle Metro Goldwyn Mayer per 50mila dollari. Faulkner, che aveva qualche esperienza hollywoodiana, mise becco perfino nel film, diretto con sapienza didascalica da Clarence Brown. Per interpretare Lucas Beauchamp scelsero l’attore portoricano Juano Hernández. Il film uscì in prima mondiale l’11 ottobre del 1949, a Oxford, Mississippi: la prima settimana, quanto a incassi, superò i fasti di Via col vento. Faulkner, quel giorno, preferì andare a pesca, continuava a dire «sono uno scrittore, non un letterato, lasciatemi in pace». Pensò di bucare la prima, di mollare tutto. Estelle, la moglie, esasperata, lo obbligò a indossare la solita giacchetta di tweed, mentre sussurrava, inacidita, «Ho aspettato così tanto per essere orgogliosa di te, ora muoviti». Faulkner, così, si conficcò nella tana della fama, che ha denti d’oro e morde alla carotide.