il Giornale, 12 novembre 2022
L’India non trova pace per Rajiv Gandhi. La Corte Suprema libera i sei assassini
Una decisione che è stata come un terremoto. La Corte Suprema indiana ieri ha autorizzato la liberazione di tutti e sei i condannati all’ergastolo per l’assassinio del primo ministro Rajiv Gandhi, ucciso nell’attacco suicida di un commando terrorista Tamil nel maggio 1991. Era il 21 maggio a Sriperumbudur, pochi giorni prima delle nuove elezioni generali. Lì Rajiv ha trovato la sua fine: è stato assassinato dalle Tigri Tamil, l’organizzazione militare clandestina che lottava per l’indipendenza dei tamil dello Sri Lanka.
L’omicidio di Rajiv è stato visto come una rappresaglia dal gruppo ribelle per il coinvolgimento dell’India nella guerra civile della nazione insulare dopo che Delhi aveva inviato forze di pace lì nel 1987 quando Rajiv era primo ministro. Ieri la notizia-bomba: «Tutti liberi». I sei erano stati condannati all’ergastolo 30 anni fa per avere organizzato assieme alla suicida Dhanu, l’attentato durante una manifestazione elettorale in Tamil Nadu. Ora la Corte era stata chiamata a decidere sulla richiesta di libertà presentata da Nalini Srihan, la sola donna del gruppo, e da R.P. Ravichandran, ma i giudici hanno autorizzato la libertà anche per gli altri quattro. Nella sua ordinanza di ieri, la Corte Suprema ha affermato che la condotta dei prigionieri è stata «soddisfacente». I detenuti erano tra le 25 persone inizialmente condannate a morte nel 1998. La corte suprema ha poi confermato la condanna di solo sette di loro.
La condanna a morte di Nalini è stata commutata nel 2000 a seguito di una petizione di clemenza della vedova di Gandhi, Sonia Gandhi, che aveva fatto notare che la detenuta in quel momento era incinta. Il partito del Congresso, di cui Gandhi era il leader, ieri ha criticato con molta durezza la decisione della corte di liberare i detenuti e la reazione, netta e decisa, è arrivata.
«La scelta è totalmente inaccettabile e completamente erronea. Il partito del Congresso la trova del tutto insostenibile», ha affermato il portavoce del partito Jairam Ramesh. «È davvero un peccato che la Corte Suprema non abbia agito in consonanza con lo spirito dell’India su questo tema», ha poi tuonato. Se il Congresso ha sempre scelto la linea della condanna dura, Sonia e i figli, da tempo, hanno optato per la clemenza. E il silenzio in cui si sono chiusi ieri l’ha riconfermata. Dopo che Sonia intervenne perché la condanna a morte per Nalini fosse trasformata in ergastolo, nel 2008, Priyanka, la figlia, con un gesto audace andò addirittura ad incontrarla in carcere. «Volevo chiudere per sempre con il dolore che ha segnato tutta la mia vita». E ha aggiunto: «Non credo alla rabbia, all’odio e alla violenza, non voglio che questi sentimenti condizionino la mia vita». Ma il partito, che poche settimane fa ha eletto, per la prima volta dopo 20 anni, un presidente estraneo alla famiglia Gandhi, resta su una posizione diversa: «Sonia Gandhi ha diritto alle sue convinzioni personali», ha ribadito il portavoce. «Ma l’assassinio di un premier è una questione istituzionale, che va al di là delle scelte private e coinvolge la sovranità, l’integrità e l’identità dell’intera nazione. La Corte ha sbagliato».