Corriere della Sera, 12 novembre 2022
Il sovranismo nostro e quello francese
La fine era nota. Eppure il nuovo governo di Giorgia Meloni è riuscito a infilarsi in una prova di forza che fin dall’inizio sembrava destinato a perdere. L’ha fatto per sentirsi fedele con se stesso. Per un’ossessiva coazione a ripetere il «romanzo Viminale» di Matteo Salvini, anche se stavolta per interposta persona.
E d è cascato in trappola per un’evidente inesperienza diplomatica, perché il comunicato con il quale martedì scorso Palazzo Chigi festeggiava «la decisione della Francia di condividere la responsabilità dell’emergenza migratoria» non andava fatto: è servito solo a far scattare la reazione di Le Pen e Zemmour, e a mettere Macron nei guai per aver aperto le porte all’Ocean Viking.
Il presidente francese si è così «pentito» dell’aiuto offerto, e ha reagito decisamente oltre misura. Siccome ognuno ha i suoi sovranisti, e i nazionalismi per definizione si combattono, il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi: una crisi senza precedenti tra i cugini del Trattato del Quirinale, che minaccia di tracimare ai rapporti dell’Italia con l’intera Unione Europea. E che ora Sergio Mattarella, con l’aiuto della Farnesina, dovrà ancora una volta disinnescare.
Di errori ne sono stati commessi molti, da questa parte delle Alpi. Il ministro Piantedosi ha condotto il braccio di ferro con le Ong in maniera quantomeno «bizzarra», affidando alle Asl il compito improprio di separare i migranti «deboli» da quelli «forti», con l’involontario effetto-boomerang di consegnare ai medici un potere di veto sulle scelte dell’esecutivo. È finita con lo sbarco in Italia di tutti i migranti della Geo Barents e della Humanity 1.
Ma quel che si doveva evitare è che un Paese come il nostro, che dall’inizio di quest’anno ha accolto 90 mila migranti, 9.500 dei quali già con la destra al governo, finisse accusato da Parigi di «disumanità» davanti all’intera Europa. Abbiamo così sacrificato sull’altare di un braccio di ferro simbolico con le Ong, che trasportano non più del 10% dei migranti, la credibilità necessaria ad ottenere accordi per ricollocare il restante 90% nell’ambito di una solidarietà europea.
Eppure il governo francese, già prevenuto nei confronti della destra al potere in Italia, visto che aveva annunciato per bocca di una sua ministra di voler «vigilare» sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, non ha davvero le carte in regola per darci lezioni di «umanità».
Il presidente della Liguria Toti, la cui regione condivide il confine con la Francia, dice che «basta fare un salto a Ventimiglia per vedere lo schieramento di agenti equipaggiati di tutto punto che ogni mattina riportano in Italia decine di migranti che hanno camminato tutta la notte, rischiando la vita per attraversare la frontiera», magari per ricongiungersi a parenti che non vedono da anni. Si calcola che ogni giorno Parigi respinga verso l’Italia 80/100 migranti, scovandoli ovunque, tra gli scogli, per strada a piedi, nascosti nei tir. Le organizzazioni umanitarie hanno spesso denunciato violenze, brutalità, false certificazioni, espulsioni illegittime di minori non accompagnati. In sette anni 28 persone hanno perso la vita tentando di varcare quel confine. L’ultimo è stato un giovane afgano di 19 anni, travolto lunedì scorso prima da un’auto e poi da un camion mentre camminava sul ciglio di un’autostrada verso la speranza.
Quindi, non per ripicca nazionalistica, ma per amore della verità: nella fortezza-Europa nessuno può scagliare la prima pietra contro l’Italia, ottomila chilometri di costa nel Mediterraneo, primo approdo di una marea umana che fugge da guerre, miseria e bisogno, lasciata sostanzialmente sola a fronteggiare l’emergenza dal lato del Mediterraneo. Altri Paesi, destinatari anche di altri flussi provenienti dai Balcani, accolgono in verità più richiedenti asilo di noi (siamo solo quarti in questa speciale graduatoria). Ma questo non li esime certo dal dovere di una solidarietà nei nostri confronti, peraltro riconosciuto negli accordi di giugno di diciotto Stati con il governo Draghi.
Le colpe degli altri non assolvono però il governo italiano. Anzi, avrebbero dovuto renderlo più accorto. Alla vigilia del debutto a Bruxelles ci eravamo permessi di mettere sull’avviso la nuova presidente del Consiglio: in Europa mostrare i muscoli non risolve niente. Perché tutti gli altri governi muoiono dalla voglia di mostrare i loro alle rispettive opinioni pubbliche. Dunque, riservate gli show per l’audience nazionale, e tentate piuttosto di risolvere i problemi in sede europea. Servono compromessi, non liti, e per fare compromessi servono alleati. Alcuni sono migliori (più forti) di altri. Mettersi in competizione «sovranista» con la Francia, nazione nella quale è stato inventato il concetto stesso di «sovranità» (Jean Bodin, nel 1576) non è saggio, e comunque non è produttivo. Il governo di Giorgia Meloni è parso flirtare all’inizio con l’idea di poter trovare in Parigi una sponda migliore di Berlino, proprio per questa fratellanza «sovranista». Abbiamo perfino imitato i francesi varando un ministero della «sovranità alimentare». Ma in realtà l’Italia ha bisogno sia della Francia sia della Germania. Ha ragione Giorgia Meloni a reagire ai toni minacciosi di Parigi dicendo che «l’Italia non può essere isolata». Ma converrà che nemmeno la Francia può esserlo.
E anzi, questa vicenda dimostra che l’idea di una «Europa confederale», in cui Bruxelles fa poco e le capitali fanno tutto, illustrata dalla neo-premier nel libro di Bruno Vespa, è di fatto contraria agli interessi italiani, perché favorirebbe solo i vasi di ferro.
Ora Meloni chiede correttamente «che si costruisca una soluzione europea» al problema delle migrazioni. Ma la via per ottenerla è la condivisione di regole comuni e cogenti per tutti, compresi gli «amici» del Patto di Visegrád, per riscrivere il «regolamento di Dublino». Non le soluzioni «à la carte» che hanno consentito alla Francia, impegnatasi a ospitare 3.500 migranti sbarcati in Italia, di «ricollocarne» finora sul proprio territorio soltanto 38.
La domanda da farsi è: dopo questa crisi siamo più vicini o più lontani dal raggiungere un tale obiettivo?