Avvenire, 11 novembre 2022
Ritratto di Gigi Riva
Quando a quelli della generazione di mio padre, anni ’40 ’50, gli parli di Rivera e Mazzola (o di Facchetti) si tolgono il cappello. Ma se tiri fuori il nome di Gigi Riva, a prescindere dal loro credo calcistico, quegli stessi nostalgici della storia di cuoio, prima provano i brividi e poi si commuovono. Perché la storia di quest’Uomo di Calcio, a volerla analizzare sociologicamente, è un piccolo compendio di antropologia culturale. Ma siccome siamo nell’area di rigore del pasoliniano calcio di poesia, allora dentro a questa storia ci trovi anche un po’ di viscontiano Rocco e i suoi fratelli, e nel caso di “Gigi e le sue sorelle”, il cammino è quello di una migrazione al contrario. Dalle nebbie padane del piccolo borgo di Leggiuno (nel varesotto) un giorno all’improvviso, estate del 1963, il giovane Riva si innamorò di un sogno: diventare un calciatore professionista. Presa la sua piccola valigia di 18enne a caccia di fortuna e sbarcò in quella Sardegna che, per il popolo del continente, al tempo era solamente terra piena di «banditi e pastori». Ed è quello che si è sentito urlare dagli spalti di tutti gli stadi anche il lombardissimo Gigi, alias “Hud” il selvaggio, almeno fino alla stagione di gloria 1969-’70 in cui trascinò il Cagliari alla conquista di uno scudetto unico, epico. Con quel trionfo, ottenuto ai danni delle superpotenze calcistiche del Nord, Cagliari e la Sardegna cominciarono a farsi conoscere nel mondo, anche al di là della ristretta cerchia degli amici miliardari dell’Aga Khan, il magnate che si inventò la Costa Smeralda. Ma l’unico “straniero” che nel tempo è diventato patrimonio della Sardegna, ancor prima che dell’unesco pallonaro, è solo lui, il breriano “Rombo di Tuono”. La sua vicenda personale è colma di «forse» e di «no», pronunciati sempre con la schiena dritta dell’Hombre vertical, come lo ribattezzò lo scriba lombardosardo Gianni Mura. «No» a Franco Zeffirelli che per 400 milioni di lire lo voleva san Francesco nel suo film Fratello sole e sorella luna. «No» alla Juventus dell’Avvocato e del presidente Giampiero Boniperti che al Cagliari offriva 2 miliardi di lire, più Bettega, Gentile e Cuccureddu. Riva poi un giorno ha telefonato a Boniperti per fargli gli auguri per i 90 anni, e il presidente commosso rispose: «Riva, erano cinquant’anni che aspettavo questa chiamata». A 78 anni, li ha compiuti il 7 novembre, Gigi Riva ha deciso di fermare per un attimo i forse e i no, e di interrompere, almeno il tempo di qualche pagina, quel silenzio, amico fedele di sempre per fare ordine nello scaffale dei ricordi. Facendosi prestare la penna da un altro Gigi, l’enoico biocalcistico Garanzini è uscita l’autobiografia Mi chiamavano Rombo di Tuono (Rizzoli. Pagine 202. Euro 18,00).
Un libro che potrebbe leggere, passando da un sorriso dentro al pianto, anche chi non è mai entrato in uno stadio di calcio. In queste pagine, Riva si è tolto la maglia bianca del Cagliari – con i laccetti al collo bordato di rossoblù e lo scudetto cucito ancora all’altezza del cuore – e quella azzurra della Partita del secolo (Italia-Germania 4-3, Mondiali di Messico ’70) per mostrare a tutti la sua bella anima salva.
Il record di gol con la maglia azzurra, 35 (davanti a Peppino Meazza 33 e Silvio Piola 30) le bordate mancine e “spaccamani” dei portieri (le povere vittime Reginato e Pianta) e i gol in rovesciata, passano in secondo piano rispetto al flusso di coscienza che fa silenziosamente rumore, specie se è quello di un uomo che confessa: «Mi piacciono i silenzi, mi piace semmai parlare con me stesso. Il silenzio è stata una parte importante della mia vita, che quand’era troppo giovane mi ha detto: “Arrangiati”. E io mi sono dovuto arrangiare... Il calcio mi ha aiutato, mi ha dato tanto per non dire tutto». In queste poche righe c’è tutto quello che dovremmo sapere del più grande attaccante italiano del dopoguerra. Un vero romanzo popolare che comincia con la morte del padre che stoppò inesorabilmente la sua giovinezza e che l’ha costretto ad imparare in fretta l’arte di arrangiarsi. In un mondo di infanti viziati, giova ricordare che il fuoriclasse Gigi Riva ha cominciato da “calciatore operaio”, e perciò, non dimentica mai le sue umili origini e quella corsa sfrenata per staccare il dolore della perdita e l’umiliazione della povertà. Come primo segno di riscatto, conserva ancora il ritaglio di quell’articolo del cronista Enzo Zulin che, premonitore, vide nel giovanissimo Gigi Riva attaccante del Leggiuno «autore di quattro reti alla Gaviratese, una sicura promessa del calcio italiano». Da Leggiuno a Laveno, costeggiando il Lago Maggiore, dove «in due campionati segnai 66 gol». Allenamenti alla sera dopo il turno al tornio, alla fabbrica del suo paese, la Slimpa – produzione ascensori – del Cavalier Fasani, dirigente del Legnano che lo acquistò. Con il club lilla, in serie C (debutto nell’ottobre 1962), è iniziata la sua scalata, ma ancora dividendosi tra l’officina di meccanico automobilistico e il campo di pallone.
Primo stipendio, 37mila lire. Con quei soldi la prima cosa che fece fu regalare un televisore a mamma Edis che quel figlio maschio lo aveva voluto a tutti i costi. Un figlio destinato a fare cose grandi e lontano da casa. Per 37 milioni il Cagliari comprò il suo cartellino l’estate del ’63 e quel viaggio nell’Isola, che ignorava fosse di sola andata, cominciò con tutti i «forse» che lo marcano perennemente a uomo. «Al momento la vissi come una deportazione. La mia paura era che Cagliari, così lontana, così sconosciuta, fosse un’altra deportazione come quella dei collegi». E invece quella terra, apparentemente arida d’umanità, e con una sola via di fuga, verso il mare, si rivelò la sua Isola del tesoro. «Il mare delle Saline del Poetto, il bagno fuori dal Porto di Cagliari e le corse notturne in
macchina fino a Villasimius. E poi, la Barbagia, l’Ogliastra, la foresta di Montarbu», era e resta la mappa interiore: i luoghi dell’anima e il calore umano della sua gente che Gigi Riva ha tatuato dentro di sé. Una geografia sentimentale da vecchio e il mare, una saggezza appresa dai racconti di pescatori, come l’amico Martino «veniva sempre allo stadio, ma di calcio non parlavamo quasi mai». Pescatori, pastori e banditi come l’evaso speciale Grazianeddu Mesina, certo, questo era il popolo nomade e tifoso che seguiva il suo Cagliari allenato da un “filosofo” vero prestato al calcio, Manlio Scopigno. I ricordi a questo punto diventano una nuvola di fumo per le mille sigarette accese e spente tra una partita e l’altra o in quell’aeroporto in cui Scopigno si siede affianco al suo Gigi e gli ricorda una volta per tutte: «Guarda che io prima che il tuo allenatore sono un tuo amico». Il De amicitia, Cicerone avrebbe potuto riscriverlo nello spogliatoio del suo Cagliari con gli uomini che con lui fecero l’impresa. Lì dentro a quel calcio in bianco e nero c’erano già impressi tutti i colori dell’arcobaleno: il blu del mare vicino al mitico stadio Amsicora, il rosso della passione del presidente Arrica, e anche il nero del volto sorridente di Nenè (una rarità il brasiliano colored nel calcio anni ’70). E così, dopo un gol di Giggirriva, un assist di Bobo Gori o di Greatti, una parata spettacolare di Ricky Albertosi, un recupero difensivo di Tomasini o Cera o l’autogol di Niccolai, tutto si scioglieva in un abbraccio sincero e fraterno, tra amici, per sempre. Fino all’ultimo i ragazzi del Cagliari del ’70 sono andati a tenere compagnia in clinica al loro Nenè, braccato da quel mastino crudele dell’Alzheimer che lo ha portato alla morte.
Era il 2016, e da allora le apparizioni pubbliche di Riva sono diventate una rarità, tipo la serata del suo 78° compleanno per assistere al docufilm Nel nostro cielo un rombo di tuono con cui lo ha celebrato il regista e suo tifoso, dai tempi di scuola, Riccardo Milani. Una chimera avvistarlo al suo ristorante, lo Stella Marina di Montecristo dove il proprietario, Giacomo, da anni ha fatto mettere in sala un trono rossoblù in onore dell’unico ospite regale, Gigi Riva. Ma l’eroe è stanco e provato dal male oscuro. «Depressione. Parola che fatico a pronunciare, perché significa farmi del male». Le prime avvisaglie ci furono subito dopo il nefasto ’76, quando a 31 anni, dopo la seconda gamba donata alla patria azzurra, Gianni Brera salutando il ritiro forzato del guerriero scriveva con la tristezza nel cuore: «L’uomo Riva è un serio esempio per tutti. Il giocatore chiamato Rombo di Tuono è stato rapito in cielo come tocca agli eroi». Un eroe vivente, il cui culto, trasmesso in forma orale di padre in figlio, dai sardi, continua ad affascinare anche le generazioni seguenti con cui non ha mai interrotto il dialogo. A cominciare dai due figli (Nicola e Mauro) avuti dal suo unico grande amore, Gianna, con cui da tempo non condivide la stessa casa, ma l’amore per le quattro nipotine e i tanti spezzoni di esistenza comune, quello sì.
Riva non ha mai smesso neppure di amare il calcio, anche se quello odierno, ossessivo della pedante e «rischiosa costruzione dal basso», non gli piace più di tanto, e degli ultimi campioni azzurri riconosce come suo «fratello minore» Roby Baggio, «il migliore». Affinità elettive tra artisti del pallone che sanno riconoscere i poeti veri, da uno sguardo. È ciò che gli accadde quando riuscì a conoscere il suo unico vero idolo, un altro sardo d’adozione, Fabrizio De Andrè. Un incontro tra due fuoriclasse del gioco del silenzio. Un silenzio rotto dal tintinnio dei bicchieri di whisky e dalla reciproca stima versata in poche gocce di parole, tra loro leggere, come quel «la tua canzone che preferisco è Preghiera in gennaio ». Quel giorno Riva se ne andò da casa De Andrè ricevendo in dono una chitarra che non sa più che fine abbia fatto, mentre anche in questo momento, nel silenzio del suo salotto cagliaritano, siamo sicuri che ad occhi chiusi, sottovoce, accenna la sua canzone preferita: «Quando attraverserà / l’ultimo vecchio ponte /ai suicidi dirà /baciandoli alla fronte: venite in Paradiso /là dove vado anch’io /perché non c’è l’inferno /nel mondo del buon Dio...». Preghiera in gennaio, o anche ode al buon dio dei sardi innamorati del calcio e devoti per sempre al loro Giggiriva al quale auguriamo cento anni ancora di sarditudine